M. Butterfly

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Un film di David Cronenberg. Con Jeremy Irons, John Lone, Barbara Sukowa, Ian Richardson, Shizuko Hoshi.
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Drammatico, durata 100 min. - USA 1993. MYMONETRO M. Butterfly * * * - - valutazione media: 3,37 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Nessuno è perfetto. Neanche Cronenberg, che nella sua ormai lunga serie di variazioni sul tema dei sesso angoscioso e deviato, delle incerte identità, tenta con M. Butterfly un film sull’ambiguità sessuale e scivola fragorosamente sulla buccia di banana della credibilità. La storia è vera. Un piccolo funzionario dell’ambasciata francese a Pechino nei giorni immediatamente precedenti la rivoluzione culturale, tale Bernard Boursicot -che nella pièce teatrale di David Henry Hwang e nel film che Cronenberg ne ha tratto si chiama, con buona pace degli omonimi editori, René Gallimard, diventato l’amante di una primadonna dell’Opera di Pechino (senza ovviamente sapere che le primedonne dell’Opera di Pechino, come ormai ha insegnato a tutti Addio mia concubina di Chen Kaige, sono di sesso maschile), scopre dopo quasi vent’anni di convivenza che la sua bella è un uomo.
Roba da non credersi. E infatti non gli credette il tribunale francese che condannò Boursicot e il suo compagno a sei anni di carcere, in quanto la strana coppia aveva trasmesso una trentina di documenti riservati del governo francese agli agenti cinesi. Boursicot disse di aver fatto la spia solo per amore, preso dalle invenzioni dell’amico su ricatti politici e altro. E, cosa più incredibile ancora, sostenne a piè fermo di non essersi mai accorto che l’amico fosse, appunto, un amico. Una storia a cui si potrebbe credere solo se Boursicot avesse la faccia di Osgood Fielding III - il miliardario innamorato di Jack Lemmon in A qualcuno piace caldo - e David Cronenberg lo humour di Billy Wilder. O, quanto meno, il gusto del grottesco e la follia di Pedro Almodovar.
Invece, dopo averci trasmesso la sua raccapricciante visione della maternità(Brood) e della sessualità femminile e dopo aver espresso in Il pasto nudo, attraverso gli incubi di William Burroughs, il senso di colpa per le tentazioni omosessuali, viste come l’orrenda aragosta gigante che succhia il midollo del protagonista, Cronenberg fa sua l’incredibile storia, con tutti gli interrogativi pratici che suscita (va bene l’ignoranza dell’anatomia femminile, va bene la fretta e la distrazione amorosa, ma insomma, questi due come si amavano?) e cerca - senza riuscirci - di raccontare una storia d’amore al di là del sesso.
Non fa neanche l’altra possibile operazione: l’analisi del perché un uomo che pretende di essere normale riesca a proiettare su un altro uomo la sua fantasia o il suo desiderio di un’immagine femminile di comodo. Come dice peraltro l’unica battuta del film illuminante in materia: perché le primedonne dell’Opera di Pechino sono in realtà uomini? Per permettere agli uomini di immaginarle come piace a loro. E quindi, in questo caso, femminile come solo un travestito sa essere, schiavo d’amore, masochisticamente e totalmente dedito come si confà a chi interpreta il ruolo della “honey trap”, della trappola al miele di cui sono piene le storie di spionaggio.
Peccato che Cronenberg, prima di dare il via al suo M. Butterfly, non abbia fatto in tempo a vedere Addio mia concubina, per capire come si possa esprimere in maniera commovente un’incerta e sofferta identità sessuale. E che non abbia visto La moglie del soldato per capire quanto a lungo si possa nascondere a chi va a letto con te di che sesso sei.
John Lone, già bravissimo ultimo imperatore, nel ruolo di Song Liling ha invece l’ambiguità dei Legnanesi, un’ombra perenne di barba e una voce (almeno nella versione italiana, che si immagina un’accurata copia dell’originale) da basso profondo che cerca di fare il vezzoso. E ancora più stereotipati sono i suoi atteggiamenti di pudore e di grazia femminile. Quanto al povero Jeremy Irons, forse perché il suo personaggio non brilla certo per intelligenza né per cultura (meglio tacere delle sue analisi politiche), non sa bene che faccia fare, mentre la sceneggiatura perde per strada senza pudore sua moglie Barbara Sukowa, racconta una rivoluzione culturale da offoffBroadway e, nel seguire la carriera à rebours di Gahhimard, da viceconsole a motocichista del Ministero degli Esteri, maltratta la logica narrativa.
Dei peccati di Madame Bovary Flaubert dà la colpa - anche - alle troppe letture romantiche. Qui galeotta dell’intrigo è la musica di Puccini, che non riesce a commuovere, in questo contesto così evidentemente falso, nemmeno nel drammatico finale. Curioso: perché persino in una favola kitsch come Pretty Woman la musica della Traviata ci parlava dei personaggio e inteneriva i cuori. Ma a Cronenberg fa difetto un enzima fondamentale per chi non ha talento per la tragedia: l’ironia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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