Il colore viola

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Il colore viola. Valutazione 3 stelle su cinque

di Nicolas Bilchi


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mercoledì 28 settembre 2011

Steven Spielberg, nel suo perpetuo sforzo di rinnovare costantemente il proprio cinema, stavolta realizza un film che pur preservando molto dello stile tecnico del regista, si discosta in modo abbastanza evidente dalle sue produzioni abituali. Basato sul romanzo di Alice Walker, Il colore viola si pone un duplice obiettivo: raccontare la tragedia e la rinascita di uno spirito indistruttibile, toccando temi come il razzismo e la misoginia, e raccontare la storia dell'America dai primi anni del ventesimo secolo fino quasi agli anni '50 attraverso l'analisi delle sue trasformazioni culturali e sociali. Obiettivo raggiunto, anche se con alcuni incidenti di percorso. Prima di tutto, dopo la parte iniziale, bellissima, in cui Celie e Nettie sono ancora piccole, c'è un sensibile calo di ritmo e di atmosfera; si aspetta che Celie si ribelli ad Albert, e in virtù di questa attesa non c'è reale sviluppo narrativo. Anche la "scandalosa" relazione sessuale tra Celie e Shu non trova conseguenze pratiche, costituisce una scena a sè stante che non ha veri riverberi sul prosieguo della storia. In questi passaggi centrali l'affresco storico prevale sul racconto; l'equilibrio che rende maestosa la prima mezz'ora di film si rompe a vantaggio di uno dei due poli del sistema, determinando una perdita di qualità ed interesse per il film. Lo stile rimane tipicamente "spielberghiano", con momenti di maggior leggerezza ed ironia, movimenti di macchina che vanno da persone a cose, sapiente ma un po' banale uso della colonna sonora, primi piani su oggetti che vogliono dire più delle parole, ma anche (e qui sta l'originalità-grandezza de Il colore viola) una maggior spigliatezza a dispetto del cinema "per famiglie" quasi sempre incarnato da Spielberg e momenti di grande poesia e di violento realismo come nella scena, completamente priva di suoni "esterni" alla scena, in cui Albert cerca di avere un rapporto sessuale con Nettie. La morale di fondo, sicuramente apprezzabile al di là delle idee particolari, è che chi ha sempre fede e cerca il bene anche nei momenti più duri, chi ama anche senza ricevere in cambio nulla, prima o poi verrà ricompensato dei suoi sacrifici; ed infatti alla fine Gelie, che ha continuato per tutta la vita a scrivere un diario rivolto a Dio e che chiama sempre "caro" nonostante tutte le sofferenze della sua esistenza. Non prova rancore verso il Signore, la speranza di rivedere sua sorella le ridà la forza necessaria per riscattarsi dalla stato di passività in cui l'avevano fatta cadere anni ed anni di schiavitù e maltrattamenti nella casa di Albert Johnson; alla fine la sua fermezza d'animo è ripagata: quando si scopre che in realtà l'uomo che le aveva messe ripetutamente incinte da piccole non era il loro vero padre, morto da tempo, ma soltanto il secondo marito di loro madre, il peccato edipico è cancellato e Celie può ricominciare a vivere, ritrova la sorella e con lei i suoi due figli, che non sono anche suo fratello e sorella. In contrapposizione Albert, che non ha mai amato nessuno, rimane solo in una casa che va in malora, quasi come se la maledizione di Celie avesse dato i suoi frutti. Alla fine ognuno viene giudicato per quello che ha fatto in vita, e così il messaggio pacifista di Spielberg trova il suo coronamento. Come già detto, le forze etiche che muovono l'opera sono al solito ineccepibili ed importanti, ma veicolate in questo caso senza l'energia solita di questo regista. Forse il vero passo falso commesso sta nell'aver dato così importanza all'argomento storico, che in fondo funge da abbellimento fine a sè stesso, allentando le briglie sulla vicenda fantastica e provocando così un notevole calo di interesse per buona parte della pellicola. Peccato anche per la bravissima Whoopi Goldberg, che risente in modo molto forte di questo errore strutturale, riuscendo a dare il meglio di sè soltanto verso il finale. Stavolta Spielberg ha mostrato senza scusanti di sorta i propri limiti.

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