Sulla carta, questo film non ha molto da esibire: regista semisconosciuto, trama inflazionata, attori da blockbuster hollywoodiano (e mi riferisco soprattutto a Mark Wahlberg).
Invece vince l'Oscar grazie all'interpretazione di Bale (meritatissimo a mio avviso), la trama si sviluppa in modo non lineare e sulla regia non c'è nulla da eccepire, come mi garantiscono dei fidati amici. In effetti, quanti bei film di pugilato sono già stati girati? Io ricordo per esempio Million Dollar Baby, Cinderella Man, Alì, e solo tra i più recenti, tutti quanti fantastici. Eppure pare che l'aspro mondo della boxe abbia ancora molte storie da raccontarci. Qui si tratta di Miky Ward, giovane promessa della boxe, che però, sotto l'egida del fratello Diky (ex-promessa persasi nella droga), suo allenatore e mentore, e della madre alcoolizzata, sua manager, non riesce ad uscire dall'opprimente mediocrità che lo circonda e lo sta opprimendo. A soccorrerlo una giovane cameriera di nome Charlene, che lo desterà da questo torpore e gli darà gli strumenti mentali per affermare la sua volontà.
La recitazione risulta nel complesso più che convincente, la regia a tratti brillante. Particolarmente ho apprezzato, nella prima scena, la ripresa quasi in prima persona di Dickey, i cui pugni si vedono sfrecciare a destra e sinistra verso Miky e, successivamente, quando nel dialogo tra i due la cinepresa segue con primi piani il loro botta e risposta. Entrambe sembrano comunicare la volontà del regista di porre i fratelli su un piano simile, senza concentrarsi troppo su Il Protagonista, e in aperto dibattito e influenza.
Le tematiche che si intrecciano sotto quella comune della "parabola crescente" dell'eroe, sono molteplici. Una di queste è certamente rilevabile nel contesto della cittadina sconosciuta, che opprime l'eroe con le sue aspettative assurde di notorietà, atteggiamento che vede la sua stessa famiglia in prima linea.
Una maggiore rilevanza è però da addebitare ai due temi che mi sono parsi cardine: fallimento e utilitarismo. Un tratto accomuna, infatti, tutti i personaggi nella prima parte del film: l'essere falliti. Dickey non hai mai raggiunto alcun titolo, la madre ha avuto qualche marito e più che figliare non ha mai fatto, Charlene stessa confessa di essere insoddisfatta della sua vita, che sembra prospettarle solo il bancone di qualche bar con molestie sessuali abbinate e Miky non vince più un incontro. In questa situazione l'unica legge è quella cruda smithiana: la società sfrutta Miky come trampolino per altri boxeur, la famiglia vede in lui la propria chanche di rifarsi anche del fallimento di Dickey d emergere, e così anche Charlene, seppur in misura minore.
Solo con l'emergere dei sentimenti (o cinicamente, per convenienza) nasce la collaborazione tra gli avvoltoi, che lascia al protagonista lo spazio per forgiarsi un Ego sufficientemente robusto -e la tenacia sul ring ne è il miglior esempio- per caricarseli sulle spalle e portarli con lui sul ring della vittoria.
In quest'ottica la vittoria non sembra più la classica (e banale) "happy ending", come viene accusata dalla recensione di Giancarlo Zappoli nella "scheda", ma qualcosa di meno bianco e più grigio; di più vero.
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