L'orto americano

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Pupi Avati questa volta non mi colpisce nel finale Valutazione 3 stelle su cinque

di Nino Pellino


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domenica 23 marzo 2025

Ogni volta che Pupi Avati decide di dirigere un thriller-horror, il suo operato è sempre una garanzia di qualità e di interesse per lo spettatore appassionato a questo tipo di genere cinematografico. E anche questa volta, in occasione del film "L'orto americano", il regista emiliano sembra non smentire la sua bravura. La trama è ambientata nell'immediato secondo dopoguerra e il protagonista è un giovane sognatore dalle tendenze visionarie di nome Lui che, durante una giornata trascorsa a Bologna nel locale del proprio barbiere intento a farsi tagliare i capelli, incrocia con lo sguardo una giovane donna dell'esercito americano che entra per un istante nel negozio per chiedere un'informazione. Lui che conosce l'inglese, le fornisce le notizie di cui lei ha bisogno ed è da tale incontro, durato appena pochi minuti, che Lui viene perdutamente rapito dalla bellezza di costei fino a suscitarne un morboso amore platonico. L'intento del giovane sarà quello di mettersi pertanto sulle tracce della donna tentandone una ricerca affannosa che lo porterà in Italia dove scoprirà delle macabre verità sulla scomparsa eventuale della ragazza, il cui nome è Barbara, e di altre sventurate donne che si presume siano state brutalmente assassinate dalle parti di Ferrara da un maniaco omicida. L'originalità e la particolarità di Pupi Avati in questo film sta nell'aver saputo tessere da una scena iniziale di tipo cauale, tutta una serie di avvenimenti e situazioni che sfoceranno in delle crude verità. Questa volta però l'effetto sorpresa delle scene finali, che tanto mi aveva rapito in altri suoi celebri film di questo genere e mi riferisco a pellicole come "La casa dalle finestre che ridono" o in tempi più recenti "Il signor diavolo", non sono riuscito a percepirlo dal momento in cui il mistero e la verità sugli avvenimenti di cronaca che caratterizzano la trama vengono intuitivamente svelati allo spettatore già circa venti minuti prima che arrivi il finale. Ciò che accomuna questo lavoro del regista con i due precedenti film citati è sicuramente lo sguardo che viene incrociato tra il protagonista (che ancora una volta ci appare come uno sconfitto) e l'omicida o comunque colui che inpersonifica la controparte non buona della situazione. Ma stavolta l'effetto mi è apparso smorzato da qualche lungaggine di troppo (il fatto che Lui verrà provvisoriamente rinchiuso in un maniconio) e, come ho detto prima, dalla verità che sale a galla già con anticipo. Nell'insieme però ho trovato sicuramente la regia di una bellezza ineccepibile (per carità, Pupi Avati è pur sempre un grande) e anche l'uso del bianco e nero riesce a donare al film la giusta atmosfera e l'adeguata impressionabilità a tutto il contesto.

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