Jost fa parte di quei registi off che sarebbe inutile andare a cercare sui filmlexicon ufficiali, anche quelli più dettagliati. Eppure, con alti e bassi (il basso più basso è Uno a te, uno a me e uno a Raffaele, girato in Italia su temi italiani nell’estate del 1994, che ha clamorosamente fallito nel tentativo di descrivere una realtà già complicata per noi, figurarsi per un osservatore estraneo), Jost ha rappresentato sulla scena americana una cultura cinematografica europeizzata e sofisticata al limite della provocazione, scegliendo temi rifiutati dal mainstream che lui ribalta e usa come pretesto per parlare d’altro (come lo strano noir rappresentato da Angel City) e un modello produttivo che diventerà quello di tutti i debutti indipendenti dai tardi anni ottanta in poi: pochissimi soldi e tutto il resto fatto in casa (o quasi).
Figlio di un generale di fanteria, ex studente di architettura, obiettore di coscienza - ma alla fine costretto, dopo qualche anno di “esilio”, a fare ventisette mesi di prigione -, Jost ha iniziato la sua carriera di regista proprio durante il suo “Grand Tour” europeo e l’ha continuata, dopo il carcere, con brevi film sperimentali che l’hanno immediatamente etichettato come “il Godard americano” grazie a una sintassi narrativa originale, soprattutto per un paese come gli Usa: tempi dilatati e imprevedibili, monologhi a ruota libera, un uso molto colto dei colori, provocatori ribaltamenti di immagini, lunghi piani sequenza.
Tra i non pochi film che sono imprevedibilmente approdati al circuito italiano - oltre a Angel City (1977), Camaleonte (1978), Sure Fire - A colpo sicuro (1990), Alla deriva (1993) -, Tutti i Vermeer a New York (1990) rappresenta il suo risultato più alto e più intenso: un piccolo capolavoro minimalista, che si stacca nettamente per “leggibiità” e intensità da tutto il resto della sua produzione.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996