writer58
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mercoledì 9 giugno 2021
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tempus fugit...
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Prendete un quadro di Picasso, dividetelo in tanti piccoli pezzi, rimescolateli e poi cercate di ricomporre la figura originale come in un puzzle. Magari, per rendere l'operazione ancora più complessa, togliete qualche frammento. Nella migliore delle ipotesi, verrà fuori un insieme un po' diverso, all'interno di una composizione che ha già alterato i rapporti spaziali tra persone ed elementi del quadro. Il film "The Father" del regista Zeller assomiglia precisamente a un puzzle ricostruito da un narratore inaffidabile, una "realtà", un insieme di percezioni viste con gli occhi di una persona che, a causa di una demenza senile, tende ad aggrovigliare, rimescolare e sovrapporre i contesti, le persone, i ricordi, gli eventi.
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Prendete un quadro di Picasso, dividetelo in tanti piccoli pezzi, rimescolateli e poi cercate di ricomporre la figura originale come in un puzzle. Magari, per rendere l'operazione ancora più complessa, togliete qualche frammento. Nella migliore delle ipotesi, verrà fuori un insieme un po' diverso, all'interno di una composizione che ha già alterato i rapporti spaziali tra persone ed elementi del quadro. Il film "The Father" del regista Zeller assomiglia precisamente a un puzzle ricostruito da un narratore inaffidabile, una "realtà", un insieme di percezioni viste con gli occhi di una persona che, a causa di una demenza senile, tende ad aggrovigliare, rimescolare e sovrapporre i contesti, le persone, i ricordi, gli eventi.
Il protagonista del film- Anthony, un ex ingegnere ottantenne interpretato da uno straordinario Hopkins- vive in una casa elegante in un quartiere residenziale di Londra, ha rapporti conflittuali con le collaboratrici che lo assistono e viene visitato regolarmente dalla figlia - Anne, impersonata da un'eccellente Olivia Colman-. Ha alcune manie compulsive, come quella di nascondere l'orologio in luoghi di cui si dimentica e qualche vissuto persecutorio nei confronti delle badanti, accusate di voler sottrargli oggetti di valore. La fissazione sull'orologio è significativa, in realtà la percezione del tempo da parte di Anthony si sta sgretolando, tende a sovrapporre il "prima" e il "dopo", il qui e il là, mescola gli eventi come fossero un mazzo di carte, rimodella la realtà sulla base dei suoi desideri e timori. Una figlia morta in un incidente continua a vivere nella mente dell'anziano, confonde il proprio appartamento con quello di Anne, rivendica un'autonomia di pensiero e di decisione che viene azzerata dalla sua condizione.
Ma non è solo il tempo a sgretolarsi, anche lo stato emotivo di Anthony subisce brusche variazioni e oscillazioni ampie su un range che spazia dall'arroganza, all'aggressività persecutoria, dall'affabilità all'invettiva, dalla fragilità al pianto. E' come se le dimensioni essenziali del vivere- tempo, interazioni, modulazioni affettive- fossero a un tratto diventate un alfabeto sconosciuto, un mare percorso da correnti rapide che trascinano via e che obbligano ad afferrarsi a ripetizioni ("In Francia non parlano neanche l'Inglese"), a silttamenti, a condensazioni, a rimozioni.
Chiunque abbia convissuto con un famigliare colpito da demenza, conosce benissimo il calvario che comporta per chi ne è affetto e per chi gli sta vicino. Dalle prime omissioni, dalle prime dimenticanze, all'erosione progressiva dello spazio delle funzioni vitali, fino al non riconoscimento dei famigliari e alla mancanza totale di autosufficienza.
"The father" ci propone la prima parte di questo percorso a partire dall'esperienza del protagonista. Alcuni tasselli rimangono non collocati e alcune domande senza risposta. Tuttavia, sono proprio queste imperfezioni, queste linee di frattura che rendono il film apprezzabile e prezioso, quasi fosse un esempio di kintsugi, l'arte giapponese che usa l'oro o l'argento liquido per saldare oggetti di ceramica che si sono rotti. Immagine che vale anche per lo spirito umano, quando corre il rischio di essere disintegrato dall'usura e dal passo del tempo.
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eugenio
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giovedì 1 aprile 2021
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dramma a porte chiuse
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Il tempo passa per tutti senza scampo, spada di Damocle, micidiale e inesorabile. Nulla pare intaccare il suo corso, a niente valgono i rimedi casalinghi per ingannar il sacro portatore della clessidra, responsabile, talune volte, di un decadimento delle nostre facoltà mentali e cognitive.
Invecchiando si perdono le forze, il fisico si rilassa e in taluni casi, oltre al decadimento del corpo, si assiste alla perdita di memoria della mente sino all’irreparabile. Sembrano saperlo bene molti cineasti, come Michael Haneke, vincitore qualche anno fa della Palma d’Oro a Cannes con Amour, un dramma da camera dalla reminiscenze bergmaniane, dedicato all’esistenza ordinaria di una coppia di ottuagenari, Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (J.
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Il tempo passa per tutti senza scampo, spada di Damocle, micidiale e inesorabile. Nulla pare intaccare il suo corso, a niente valgono i rimedi casalinghi per ingannar il sacro portatore della clessidra, responsabile, talune volte, di un decadimento delle nostre facoltà mentali e cognitive.
Invecchiando si perdono le forze, il fisico si rilassa e in taluni casi, oltre al decadimento del corpo, si assiste alla perdita di memoria della mente sino all’irreparabile. Sembrano saperlo bene molti cineasti, come Michael Haneke, vincitore qualche anno fa della Palma d’Oro a Cannes con Amour, un dramma da camera dalla reminiscenze bergmaniane, dedicato all’esistenza ordinaria di una coppia di ottuagenari, Anne (Emmanuelle Riva) e Georges (J.L. Trintignant), esponenti di un universo che ha fatto della cultura il baricentro geostazionario, il pilastro della propria identificazione sociale e sconvolti dalla malattia di Anne che per un ictus rimane inabile di qualsivoglia azione e costretta ad una sedia a rotelle presto inibita dall’uso della parola.
Se possiamo dire, ad Anthony, il protagonista della pellicola d’esordio alla regia per il regista Florian Zeller, tratta dal suo stesso scritto teatrale, The father, va decisamente meglio. Anthony, infatti, nome omen per quello che fu il terribile e sadico Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti, Anthony Hopkins, si muove, ma purtroppo per lui, pian piano qualcosa nella sua mente sembra non funzionare più. Alcuni accadimenti gli appaiono “stonati”, come fosse vittima di un complotto familiare, di una figlia Anne (Olivia Colman) che pare nascondergli qualcosa, di una vita che si tramuta sempre più in una claustrofobica iterazione di eventi giorno dopo giorno.
Eppure, siamo lontani dalla matrice di un thriller psicologico perché Zeller, abilmente e con una steady-cam che pare seguire pedissequamente non tanto i movimenti quanto soprattutto i pensieri dell’uomo, mette in scena dentro quattro mura domestiche il dramma di un disfacimento mentale. La ripetitività degli accadimenti, la perdita del tempo, lo spaesamento, la memoria che piano piano se ne va, scorrono con leggerezza come fossero sintomi di un grido muto e inarticolato che non riesce a esprimersi con facilità.
Anthony vacilla, il mondo pare complottare contro di lui e noi spettatori, in un primo momento, senza nulla conoscere di quest’uomo, senza nulla sapere di demenza senile, pensiamo che sia tutta un’abile montatura come se fossimo parte di un teatrino in cui ciascun personaggio recita un ruolo differente a seconda del soggetto che interpreta. Pirandello e il suo relativismo gnoseologico perde ogni significato entro un mondo che lentamente e amaramente per Anthony muta piano piano sino a divenire irriconoscibile, come la casa, il luogo familiare per eccellenza, gli oggetti d’uso quotidiano che misteriosamente non trova più, le iterazioni volute in fase di sceneggiatura fatte di dialoghi e inquadrature rivolte al primo piano di un uomo giorno dopo giorno, sempre più irriconoscibile.
Film raro dotato di una leggerezza ossessiva, mortifera, emozionante, capace di entrare nei prodromi di una malattia, The father, il padre in senso lato, è uno spaccato di una esistenza malinconica che lentamente si affievolisce nei ricordi, drammaticamente avvinto a una malattia incurabile e capace di avvinghiare corpo e anima.
Il tutto senza retorica o melò di fondo, con la sola forza di un grande attore come Anthony Hopkins, ritratto, come in una commedia di Bennet, “nudo e crudo”, là nella sua caratterizzazione patologica come fu quella di Emmanuelle Riva in Amour. Due film diversi, là la ferocia della malattia vissuta in solitudine e nel dolore, qui in un soffocato tentativo di irreversibile recupero, due temi differenti accumunati entrambi dall’inferno a porte chiuse sartriano e dall’infinito amore di chi resta. Candidato agli Oscar 2021 ma già vincitore morale di chi questo dramma lo vive ogni giorno sulla pelle o lo condivide, il vero amore sacrificale.
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alessandro spata
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venerdì 30 aprile 2021
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the father. progressiva scarnificazione dell''io
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Un grande film è (anche o soprattutto, forse) quello in cui le vicende non si dipanano indipendentemente dall’osservazione dello spettatore. Quest’ultimo non solo non si sente mai escluso dalla storia,ma attraverso gli attori e le situazioni narrate entra in scena lui stesso con tutto il retroterra del suo mondo interno. Stai lì a guardare ed è come se recitassi la tua parte. Partecipi alle scene proiettate e le completi in qualche modo. Ti immedesimi nella storia e nelle gioie e nei dolori dei suoi protagonisti e senza che l’autore indulga alla facile emozionalità o al sentimentalismo becero, ma al contrario stimolandoci ad una riflessione lucida sulla condizione umana.
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Un grande film è (anche o soprattutto, forse) quello in cui le vicende non si dipanano indipendentemente dall’osservazione dello spettatore. Quest’ultimo non solo non si sente mai escluso dalla storia,ma attraverso gli attori e le situazioni narrate entra in scena lui stesso con tutto il retroterra del suo mondo interno. Stai lì a guardare ed è come se recitassi la tua parte. Partecipi alle scene proiettate e le completi in qualche modo. Ti immedesimi nella storia e nelle gioie e nei dolori dei suoi protagonisti e senza che l’autore indulga alla facile emozionalità o al sentimentalismo becero, ma al contrario stimolandoci ad una riflessione lucida sulla condizione umana. L’esperienza di certe “proiezioni” può essere davvero sconvolgente a tal punto che di certi film sarebbe sconsigliabile la fruizione individuale per scongiurare il rischio di sentirsi troppo soli alla fine.
Questo solo per introdurre un grande film come The father. Non citerò gli splendidi attori o la regia precisa e altamente metaforica, per così dire. Dico soltanto che secondo me questo è un film soprattutto sul “tempo”. La condizione della demenza senile è un pretesto per accennare ad un discorso più ampio sulla percezione individuale angosciosa tante volte del tempo e del suo fluire. E Hopkins si presta magnificamente allo scopo.
Forse è di una “perversione” che stiamo parlando? La demenza alla stregua di un’«aporia temporale della non-morte» cioè di una realtà che è luogo della tortura dell’impossibilità di ogni “movimento” pur continuando a vivere. Essa evidenzia il marasma in cui versa il protagonista il suo non saper dovere andare, cosa dover fare, il non sapere chi è. Ed ecco che Antony si ritrova nelle vesti di un “oggetto” inerme, indifeso che non ha più la concezione dello spazio, che non sa più dove si trova. Concetti come avanti e indietro, sotto o sopra, prima e dopo non hanno più alcun senso. E dove potrebbe andare allora? Nella perdita del controllo dei suoi gesti (nulla può agire per ritrovarsi e ritrovare la stabilità dello spazio e del tempo) il protagonista Antony si aliena totalmente. Altro che miraggio di completezza o illusione di unità. Qui si dà il caso che si riconosce e si identifica soltanto nell’immagine spezzata di un “corpo frammentato” che testimonia soltanto del fatto che è in balia degli altri e degli eventi oltre che della sua “inibizione motoria”. Attenzione lo spettatore si immedesima in questa “perdita di movimento” (del protagonista) facilitato in questo, chissà, forse anche dalla situazione filmica verosimilmente. Lo spettatore, pur “recitando” a suo modo le scene, rimane pur sempre “spettatore” ruolo che porta in sé certi elementi di “inibizione motoria”: il respiro si fa più lento e durante la durata della proiezione si impone di rimandare qualunque “agito” che possa disturbare la visione propria e altrui. In questa «immobilità propriamente motoria», cui sono obbligato dalle circostanze mi ritrovo come in una bolla in cui il tempo si è fermato e la forza di gravità non infierisce più su di te più di tanto. Ma col vantaggio di poter tornare alla fine del film ai tuoi ritmi soliti.
Siamo letteralmente risucchiati nella storia di questo cedimento strutturale di un uomo che vive l'orrenda sensazione della discontinuità nell’esperienza temporale.Vediamo la sua vitasotto il profilo del suo autentico accadere. C’è soltanto il puro “fatto” che qualcosa accade indipendentemente da ogni sua interpretazione, o possibile intervento.
Sicuramente la vita di Antony non è più scandita dai tanti piccoli quotidiani “Prima” e “Dopo” come capita a tutti normalmente. Ma a qualcuno di noi tocca persino di vivere degli eventi “Dopo” i quali non solo percepiamo la frattura traumatica della continuità del nostro percorso esistenziale, ma finiamo per provare anche l’orrenda sensazione che il mondo non sia più così giusto, che persino il tempo non sia poi così galantuomo e che tutto non abbia più significato. Forse la morte della figlia Lucy che ritorna meccanicamente alla mente di Antony può essere lo spartiacque?Ci sono eventi che ci fanno vivere un eterno strisciante “Dopo”, in cui sentiamo perennemente di non avere il controllo della nostra vita e di ciò che ci capita intorno. La figlia (defunta) di cui non capisce il perché non si tenga in contatto con lui, precipita Antony in una condizione ontologica di “trauma” a causa del quale possiede soltanto la consapevolezza liminale di essere disarmato in balia degli eventi e che il mondo non sarà mai più affidabile. Questa sola intuizione assurge completamente alla sua coscienza. Tutto alla fine diventa discutibile, irrisolto. Ed è difficile dare un senso a quello che verrà. Immerso com’è in questa sorta di “The day after” permanente.
Il ricordo della figlia e il suo “desiderio” impossibile di “rivederla” mira nella mente di Antony a ristabilire un ordine cioè a fare giustizia. Antony - si affaccia alla memoria - come se si affacciasse a guardare fuori dalla finestra della sua camera per convincersi che esiste ancora qualche certezza: che i rami degli alberi oscillano al vento, le persone passano, i bambini giocano. C’è ancora un ordine in questo universo dopo tutto e nonostante il suo “Day after” permanente. La “compulsione” di Antony a - riesumare periodicamente la figlia Lucy dalla memoria - è un atto di riverbero, un’azione di rifrazione, un contraccolpo, insomma un ritorno al futuro: guardare ad un passato mitico (mitico perché la figlia è in realtà morta) nell’illusione di poter procedere ancora con fiducia verso il futuro; come essere con le braccia proiettate in avanti, ma guardando costantemente all’indietro (pauroso torcicollo ontologico).
Quella di Antony è il ricordo di una vita già morta. Simbolo di un’esistenza che si vorrebbe mai modificata dagli eventi, ma che diviene fatalmente una presenza opprimente, senza tempo, o più propriamente, la paralisi di una trama sempre irrealizzata (di un’opportunità sempre inattuata), ma sempre già drammaticamente e quotidianamente “sperimentata”.
La sua “sembra” l’attitudine mentale di uno per il quale il futuro non c’è o comunque non viene percepito mai come qualcosa di imminente.Allora sarà un caso se il tempodi Antony sembracaratterizzato da un’eccessiva incomprensibile per certi versi lentezza inframezzata da numerosi singulti?
Antony non capisce e si arrabbia persino. Tutte queste attenzioni. Tutte queste precauzioni. Bando ad ogni sentimentalismo! Non è pietà, né carità che cerca, ma pretende il nostro “riconoscimento”. Almeno questo rientra ancora nell’orizzonte possibile della sua volontà? Allora, sforzatevi di “parlargli” ancora, provate a vederlo ancora come persona umana, cioè come potenza capace ancora di agire.
Egli non pronuncia mai la parola “morte”. Ha poi la consapevolezza di poter morire? D’altra parte se “il futuro non è mai qui” persino proiettare la propria “deadline” in termini determinati, a una data presumibile da destinareè impossibile. Eppure qualcosa sta morendo lentamente dentro di lui e con lui. Piccoli particolari anticipano la sua fine e tutto sembra una sorta di manfrina inscenata allo scopo di richiamar-ci ad un destino ineluttabile. La stessa demenza del personaggio su cui si fonda lo stesso impianto narrativo sembra fungere di per sé da strategia di procrastinazione. La sua fine non è mai certa ovviamente. I tempi vengono differiti, spostati di continuo in un futuro indeterminato o comunque tale ci appare.Sappiamo solo che avverrà. L’età del protagonista e il suo decadimento inesorabilmente ingravescente non possono che preludere all’esito. Tuttavia, antony nega la realtà e si “persuade” a rimandare ad un tempo indefinito la fine. Una fine che lo spettatore non vedrà perché deve rimanere indefinita anche nella sua mente. Non è semplice desiderio del lieto fine. È solo l’istinto di sopravvivenza che lavora sottobanco per tutti sani e malati. Anche quando la tua mente sembra volatilizzarsi progressivamente.
Anche la musica cosa è se non una manovra per provare a liberare ancora un passato e un futuro rimasti inchiodati in uno spazio e in un tempo non più umani privi di realtà tangibile? Antony si mette in ascolto del mondo. E da questo mondo gli giungono le dolci note di Purcell, Bizet, Bellini. Fino a quando il disco si inceppa finendo per rimandargli soltanto una “monodia” una nota unica granulosa, stridente; un unico ossessivo suono stonato, straziante nella sua orripilante disarmonia; un suono trattenuto, ma non allo scopo di estendere in avanti la percezione musicale, ma solo per poter iniziare ogni volta da capo dallo stesso punto-suono dove tutto accade – nel presente di una sonorità cacofonica sempre attuale, sempre uguale -. E il presente si allarga sì, ma ancora una volta e sempre all’indietro verso il “prima”; come avere il braccio di un vecchio grammofono impiantato nel cervello che graffia continuamente all’indietro con la sua punta di diamante sempre sullo stesso istante, sempre sullo stesso punto della corteccia fino a scavare un solco lancinante giù in profondità dove è immagazzinato quell’orribile esperienza del tempo che non scorre mai. Insomma, una vera orripilante sensazione fisica, una sorta di “realtà aumentata” del dolore umano. E non ti resta che scrollarti di dosso le cuffie per provare a rimettere a posto il corso della musica. Ma non sarà facile convincersi che comunque non può essere la stessa musica. Non lo è mai.
E quella carrellata lungo il corridoio che si sposta lentamente (con la steadycam presumibilmente) verso quella porta finale, lì in fondo. Claustrofobico corridoio come nell’Overlock Hotel. Forse sarebbe più igienico non sbirciare dietro quella porta. Fermarsi sulla soglia. Perché deve essere angosciante scoprire che dietro quella porta non c’è nulla; più niente da vedere, più niente da sapere, più niente da desiderare. Oppure preparatevi ad accogliere il dolore assoluto, incondizionato, indicibile che testimonia della trasformazione in atto di un uomo che non è più titolare della comprensione di se stesso e delle sue esperienze.
Chi sei tu? Chi sono io? Pronuncia Antony in questa sorta di esclamazione finale di un dialogo interiore. Notate il suo volto in quell’ultimo scorcio di film. Un volto atterrito e sbalordito insieme. La sua è la maschera dello sgomento di fronte al “nulla” che gli si prospetta ogni momento dinnanzi agli occhi.
Tenta di appellarsi ancora alla memoria. In questo tentativo sembra risuonare un ennesimo sussulto di vitalità. Ma i ricordi sono come “le foglie che sente di perdere” inesorabilmente. Le foglie cadendo si staccano dal loro albero. Così i ricordi lo isolano dal suo “albero della vita”. Egli è solo nel suo pensiero e non sa nemmeno dov’è in realtà e che ci fa qui. In questo dialogo dell’Io rivolto a sé nel silenzio di una dimensione individuale, vive il paradosso di una temporalità che sfugge sì, ma soltanto nel passato fino al punto che lo vediamo regredire all’infanzia con una voce sottile proprio come quella di un infante smarrito, proprio come il “curioso Benjamin Button” che corre l’esistenza in una prospettiva a ritroso in cui però è costretto a – lasciarsi agire più che agire in prima persona -. A questo punto implora la madre di portarlo via. Ma non è un vero ricordo il suo e infatti non riesce nemmeno a “vederne il volto” solo i suoi occhi grandi gli sovvengono; una parte che fatalmente non può restituirgli il tutto. Ancora un corpo spezzato frammentato o soltanto il vissuto nudo e crudo di una sensazione che tende a ripresentarsi per intero nella sua forma originale? Il ricordo di un passato percepito nel presente nello stesso identico modo in cui lo avevo vissuto da bambino. Una sorta di ricordo “essenziale”, primigenio, talmente vero e vivido da essere brutale, da far male persino: il crudele prolungamento della percezione nel presente di un passato che non ha goduto dell’intercessione, né della ricomposizione tipiche del tempo che scorre, che non ha risentito di quell’opera benemerita di ri-elaborazione propria della memoria. No! Non sono veri ricordi i suoi, ma solo impressioni, orribili – scheletri esadecimali di un atto di coscienza -.Quante volte abbiamo invocato nostra madre nei momenti di difficoltà? Mamma aiutami! E improvvisamente ci ritroviamo catapultati all’indietro come in una sorta di distorsione spazio temporale, di nuovo bambini. Ma se tutto va bene possiamo sempre tornare nel nostro presente nella prospettiva certa di un futuro prossimo. E invece a Antony capita di ritrovarsi sprofondato in un abisso temporale tra un passato che non passa e un futuro che non c’è. In questo territorio paradossalmente fuori dal tempo e dallo spazio la storia si arresta sine die. Ma in che razza di “zona” sarà finito? Un territorio desolato, dove le normali leggi della natura del tempo e dello spazio non valgono più. E dove nemmeno i “desideri più intimi e segreti” si avverano.
Siamo arrivati al dunque. A Antony sembra davvero di intrattenere una relazione immaginaria con qualcuno che non è reale. E si aggira come un “fantasma” nei meandri di se stesso. È lui stesso il suo “fantasma”? Uno che “non significa” più nulla, che non rimanda a nessun altro significante.
E si scopre impossibilitato a capire se sia effettivamente lui a guardare la tragedia che si porta addosso o “siano gli occhi di un altro a vedere al posto suo. È assurdo, ma non può che sentirsi escluso dall’essere e dal non-essere incapace com’è di rivendicarne la benché minima responsabilità.
Eppure è ancora capace di pronunciare la parola “io”. “Io” esiste ancora. ’Io” non si è ancora scolorito fino al punto di estinguersi. In questo stato di isolamento in cui versa le parole hanno ancora un senso. La parola qui non ha ancora subito uno scacco inesorabile. La parola si oppone strenuamente al silenzio. Le sue parole risuonano come un grido alla nostra coscienza. Non il grido energico dell’uomo rabbioso, ma quello più svigorito di un uomo adulto ormai stremato che chiede aiuto. La parola qui ha ancora la forza di assurgere a referente estremo del dolore irrimediabile. C’è ancora spazio per scandire la parola che si oppone a – quel nulla assordante” del dolore che annichilisce. Il suo grido risuona nelle orecchie e nel cuore dell’infermiera capace ancora di ascoltare. Il suo mesto richiamo è ancora capace di fare breccia nell’istinto, nella ragione e nel sentimento.
Ecco allora l’ uomo che sta consumando dentro di sé tutto ciò che appartiene alla “creatura”: – i ricordi frivoli, le parole dei libri, le impressioni, l’esperienza, gli affetti, le gioie e i dolori, tutto insomma! Eppure c’è ancora una tensione dentro il protagonista! Ma che si prefigura come una marea impetuosa ricca di ancora di immagini vivide e sconvolgenti seppure indefinite. Come si può svuotare completamente un organismo da ogni bisogno, da ogni tensione? Nemmeno l’Alzheimer osa arrivare a tanto.
Non ha più un posto dove riposarsi Antony. E non distingue più la notte dal giorno; esistono solo variazioni della luce. Però, sa che l’orologio è al suo polso. Gli servirà per il “viaggio”, ma non è sicuro di essere pronto (affiora la consapevolezza del “dover morire?”) Magnifica poi la scena finale dell’infermiera che sostiene Antony quasi michelangiolesca nella sua “pietà”.
Fuori c’è il sole…Come On Baby… Forza amico mio…Andrà tutto bene…Easy now…Ti sentirai bene tra un minuto, te lo prometto.
Ed ecco il nero dell'«immagine» finaleultimo residuo di un Io in progressiva dissolvenza. Metafora della “scarnificazione” progressiva dell’Io del protagonista che implode nel nulla. In questo consiste la morte? Ma quel nero ci piace trattarlo alla stregua di una – dissolvenza in chiusura – come in “Interiors” in cui lo stratagemma accresce la malinconia di un epilogo che comunque vogliamo che rimanga aperto.
Tocca a voi spettatori adesso.
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maugam
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domenica 30 maggio 2021
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tema interessante ma...
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Condivido quasi copletamente il commento di carloalberto.
Sceneggiatura barocca, tecnica di ripresa banale, montaggio artificioso, straordinaria interpretazione di Hopkins.
Il tema, invece lo reputo interessante anche se la societa', pero', e' fatta, nella stragrande maggioranza dei casi, da persone decisamente meno agiate, rispetto ai protagonisti del film e la gestione di una persona anziana con le problematiche espresse dal film, non e' certo economicamente "facile" come, invece, il regista ci vuole far credere.
Le scene finali sono, infine, scandalose; si, certo, ad un certo punto, forse, non e' piu' possibile gestire in casa un anziano malato ma, per andare in una clinica, ci vogliono i soldi, tanti soldi e il personale di queste cliniche, anche se da decine di migliaia di euro al mese, non sono certo come la suadente infermiera della favola del film.
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Condivido quasi copletamente il commento di carloalberto.
Sceneggiatura barocca, tecnica di ripresa banale, montaggio artificioso, straordinaria interpretazione di Hopkins.
Il tema, invece lo reputo interessante anche se la societa', pero', e' fatta, nella stragrande maggioranza dei casi, da persone decisamente meno agiate, rispetto ai protagonisti del film e la gestione di una persona anziana con le problematiche espresse dal film, non e' certo economicamente "facile" come, invece, il regista ci vuole far credere.
Le scene finali sono, infine, scandalose; si, certo, ad un certo punto, forse, non e' piu' possibile gestire in casa un anziano malato ma, per andare in una clinica, ci vogliono i soldi, tanti soldi e il personale di queste cliniche, anche se da decine di migliaia di euro al mese, non sono certo come la suadente infermiera della favola del film.
Si puo' mettere un anziano in una struttura di riposo ma e', sicuramente, per lui, sempre, la peggior strada possibile.
Ecco perche' non vedro' piu' film di Florian Zeller, un servo della nostra societa'.
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gustibus
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mercoledì 4 agosto 2021
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nessun pugno nello stomaco!
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Sono pronto agli attacchi..ma che volete..dico sempre quello che la mia mente percepisce,il mio cuore sente.Quando vedo un film dai5anni(Via col vento)ad ora(68)..non guardo i premi la vostra pregevole recensione.Visto ieri in streaming..a parte la mostruosa recitazione di A.Hopkins questo "The father"non mi ha emozionato per niente.Quando vedo tre stanze,una finestra in 90minuti,vado in tilt!Per quanto riguarda la recitazione,non era cinema,era teatro!appunto tratto da una pièce del regista Florian Zeller e si vede!..Il tema?..qui si parla di demenza senile o Alzheimer non si capisce bene..in fondo temi simili sono stati affrontati in molti altre visioni.Quello che mi ha frastornato che vedendo le foglie ,la storia era su una fine senza aver dato sussulti e mi chiedevo "ma davvero e'finito cosi'?"Con un soggetto cosi'banale(e non vi sta parlando un giovanotto!)la visione non mi ha trasmesso nulla.
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Sono pronto agli attacchi..ma che volete..dico sempre quello che la mia mente percepisce,il mio cuore sente.Quando vedo un film dai5anni(Via col vento)ad ora(68)..non guardo i premi la vostra pregevole recensione.Visto ieri in streaming..a parte la mostruosa recitazione di A.Hopkins questo "The father"non mi ha emozionato per niente.Quando vedo tre stanze,una finestra in 90minuti,vado in tilt!Per quanto riguarda la recitazione,non era cinema,era teatro!appunto tratto da una pièce del regista Florian Zeller e si vede!..Il tema?..qui si parla di demenza senile o Alzheimer non si capisce bene..in fondo temi simili sono stati affrontati in molti altre visioni.Quello che mi ha frastornato che vedendo le foglie ,la storia era su una fine senza aver dato sussulti e mi chiedevo "ma davvero e'finito cosi'?"Con un soggetto cosi'banale(e non vi sta parlando un giovanotto!)la visione non mi ha trasmesso nulla..niente di niente e 15mila film li avro'visti.Poi i premi tutto il rispetto del mondo.Vale l'oscar al miglior attore..anche se dice nel film che e'del 1937..quindi recita come 84enne..e il grande attore e'molto vicino all'eta'..da qui la sua bravura.Allora potrei dire bravo anche al grande Clint Eastwood per "The Mule"che ha quasi 90anni anche lui.Ora attaccatemi ma non ritiro una parola della mia recensione..la trama..a parte la malattia non saprei descriverla..ecco la mia delusione.Spero di non raggiungere i quasi 200si e i 200no di Nomadland.Non sono sadico,vorrei tanto parlare bene di questi film pluripremiati..mi dispiace deludere.
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dandy
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mercoledì 4 ottobre 2023
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perso in se stesso...
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Il regista porta sullo schermo la sua omonima piece teatrale(dopo un adattamento del 2015,"Florida") e scegliendo di aderire totalmente al punto di vista del protagonista mette lo spettatore sullo stesso piano,facendogli provare lo stesso smarrimento e,col progredire degli eventi fino allo struggente finale rivelatorio,la stessa disperazione.Anthony(curioso che sia il nome dello stesso Hopkins)vede la realtà cambiargli di continuo davanti agli occhi,diventare ignoti e confusionari quelli che pochi momenti prima erano appigli certi e le persone che lo circondano assumere di volta in volta connotazioni sempre più ambigue ed inquietanti.Abilissima in tal senso la narrazione,che a tratti sembra virare nel thriller horrorifico,col senso di claustrofobia e oppressione accentuati dall'ambientazione perennemente in interni,e quasi del tutto nella casa del protagonista.
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Il regista porta sullo schermo la sua omonima piece teatrale(dopo un adattamento del 2015,"Florida") e scegliendo di aderire totalmente al punto di vista del protagonista mette lo spettatore sullo stesso piano,facendogli provare lo stesso smarrimento e,col progredire degli eventi fino allo struggente finale rivelatorio,la stessa disperazione.Anthony(curioso che sia il nome dello stesso Hopkins)vede la realtà cambiargli di continuo davanti agli occhi,diventare ignoti e confusionari quelli che pochi momenti prima erano appigli certi e le persone che lo circondano assumere di volta in volta connotazioni sempre più ambigue ed inquietanti.Abilissima in tal senso la narrazione,che a tratti sembra virare nel thriller horrorifico,col senso di claustrofobia e oppressione accentuati dall'ambientazione perennemente in interni,e quasi del tutto nella casa del protagonista.E Hopkins(premiato con un Oscar strameritato come la sceneggiatura non originale)torna ad offrire una performance veramente sensazionale dopo quasi tre decadi di lavori talvolta pessimi.Perfetto nel passare da uno stato d'animo all'altro nell'arco di pochi secondi rendendo appieno il lancinante dramma di un uomo sempre più devastato e alla deriva nella propria mente.Uno dei migliori film di sempre sul tema scabroso e delicato della peggior malattia che possa colpire nella vecchiaia,ma non proprio adatto a tutti.
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felicity
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lunedì 31 gennaio 2022
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un dramma senza una storia
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The Father è un dramma in cui Anthony Hopkins e Olivia Colman impersonano una vera e propria situazione emotiva, per niente atipica. La storia è quella di Anthony, un uomo anziano probabilmente afflitto dal morbo di Alzheimer, che ne affronta i sintomi: smarrimento, confusione, sbalzi d’umore, deformazione della realtà; il tutto senza rendersi conto della malattia e del suo progredire, continuando a rifiutare l’aiuto continuo da parte della figlia, Anne, sempre più preoccupata e avvilita nel vedere il padre perdere lucidità. Nella ricerca di qualcuno che possa occuparsi di lui, i due affrontano – attraverso i rispettivi ruoli di padre e figlia, entrambi a proprio modo vittime di quella patologia atroce – l’avanzare della malattia e la perdita dell’identità, di ciò che lo rende quindi una persona.
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The Father è un dramma in cui Anthony Hopkins e Olivia Colman impersonano una vera e propria situazione emotiva, per niente atipica. La storia è quella di Anthony, un uomo anziano probabilmente afflitto dal morbo di Alzheimer, che ne affronta i sintomi: smarrimento, confusione, sbalzi d’umore, deformazione della realtà; il tutto senza rendersi conto della malattia e del suo progredire, continuando a rifiutare l’aiuto continuo da parte della figlia, Anne, sempre più preoccupata e avvilita nel vedere il padre perdere lucidità. Nella ricerca di qualcuno che possa occuparsi di lui, i due affrontano – attraverso i rispettivi ruoli di padre e figlia, entrambi a proprio modo vittime di quella patologia atroce – l’avanzare della malattia e la perdita dell’identità, di ciò che lo rende quindi una persona. L’ansia della figlia cresce quando comunica al padre che, per consolidare una nuova relazione, sta per trasferirsi in un’altra città.
Un dramma sobrio, per nulla mellifluo, che mette in risalto una realtà quotidiana pregna di dolore. È risaputo che, tendenzialmente, quando si ha una determinata malattia i “portatori” smettono di essere visti come persone e diventano malati. É importante superare lo stigma e iniziare a guardare oltre, riconoscere l’individualità della persona, che sebbene colpita dalla malattia non è per questo “scomparsa”. Anthony è ancora una persona, e uno che sta subendo la peggiore delle ingiustizie: perdere la propria memoria significa perdere la propria identità, quindi esistere smettendo di essere. E non è da meno chi deve stare a guardare, come Anne, costretta a piangere la perdita del padre anche se lui è ancora vivo.
C’è un puzzle da ricostruire, attraverso le suggestioni di un luogo, di un appartamento ove si è vissuta una vita, in attesa di quei pochi ricordi che il cervello riesce ancora a tenere in vita. Non a caso la scenografia ricopre un ruolo da protagonista: la storia si muove ipoteticamente in diversi spazi ma in realtà ne vive solo uno, l’appartamento, che sopravvive nei ricordi di Anthony; una sola location come punto di riferimento dove poter trovare se stessi, e al massimo sbirciare all’esterno dalla solita finestra sulla strada per verificare che sia tutto al posto giusto, un appartamento che fa da contenitore per le confusioni e i sentimenti dei suoi abitanti. L’ambiente ricorda l’aridità rimasta dopo una vita vissuta espressa dall’Amour di Haneke, in cui la casa esiste, respira, conosce ogni segreto. L’esterno è tutto in ordine, ben posizionato, quasi in attesa; ma dentro c’è uno caos che mette tutto in disordine.
The Father non è il primo film a trattare di Alzheimer o demenza senile, ma si distingue nel modo in cui la racconta: attraverso lo sguardo di chi ne è vittima, mostrando ciò che vede, sente, vive. Due interpreti maestri dell’emotività controllata portano addosso il peso di una storia, o forse non storia; un esperimento che parte dal teatro e passa per il cinema, ma che soprattutto vuole essere un’esperienza multimediale di narrazione in cui vengono manipolati luogo, tempo e spazio per arrivare a un fine. Siamo lontani dall’effetto de Il sesto senso o di Fight Club: non si cerca di “imbrogliare” lo spettatore attraverso la distorsione della realtà, ma di renderlo partecipe a questa forma di verità che esiste, che accade. Come Fincher ha dato al pubblico gli stessi occhi e orecchie di Edward Norton, facendolo entrare nella sua mente psicotica, Zeller fa lo stesso senza necessità del colpo di scena finale; il pubblico, messo in una condizione di sovrapercezione, qui è consapevole da subito del problema che affligge i personaggi. Ed é importante che lo sappia. Un gioco che spinge a chiedersi chi sia realmente il protagonista: gli attori o gli spettatori?
Ricordi, volti e luoghi si mescolano nella mente dell’anziano protagonista così come agli occhi del pubblico. In questo caso non c’è l’analisi della malattia o lo svilimento per la perdita che questa comporta, ma c’è la rappresentazione di un perenne stato confusionale che rende tutti partecipi della crudeltà intrinseca di una malattia che è cosi reale. Un declino interiore che ristagna nella perdita d’identità, che portata avanti nella consapevolezza crea una risposta di non accettazione, e lo si percepisce non solo dalle reazioni ma anche dai volti. Ma Anthony, seppur infrenabile, può soltanto limitarsi a seguire quel che succede – la narrazione – nel suo svolgersi univoco e senza controllo, nel dolore nostalgico per la perdita di mondi e tempi perduti.
Nel film la realtà vera prende forma attraverso il (non) racconto frammentato di Anthony, ciò che ricorda e che vede come dei flashback cinematografici, ricreando in un certo senso – sempre nel connubio memoria-cinema – il montaggio della sua esistenza.
La memoria rappresenta il meccanismo attraverso cui l’uomo costruisce una narrazione del sé, e il film il contenitore che imprime le immagini di questa memoria, come ricordi che prendono vita in proiezione. Sia nel film che nella memoria le sensazioni passate possono riaffiorare dal nulla; le memorie sono proiettate nella mente come in una sala. Nel film come nei ricordi il tempo non è lineare, ed entrambi fungono come mezzo per viaggiare tra passato e presente.
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angelo umana
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mercoledì 2 giugno 2021
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le vie perdute della mente
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Lo spettatore che si avvicina all'età di cui si tratta in questo ottimo film prova inquietudine e disagio nel vedere le fasi che si succedono per giungere ad un'epoca in cui la vita e le funzioni della testa non appartengono più al suo proprietario, non rispondono più ai comandi. Questo è merito del protagonista Anthony Hopkins, il livello della cui recitazione si mantiene altissimo, e della sua facente funzioni di figlia nel film, Olivia Colman, per la veridicità dello svolgersi dei fatti e la loro superba interpretazione.
La progressione verso lo stato che il nostro interprete rappresenta, l'ex ingegnere Anthony che perde la nozione del tempo, delle cose e delle persone che lo circondano, coi ricordi e le percezioni sfumate e non più collegabili tra loro, è ben descritta dalle annotazioni lette, del regista e drammaturgo francese Florian Zeller (il film è la trasformazione di una sua opera teatrale) e da esperti critici, come meglio non si potrebbe dire: “.
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Lo spettatore che si avvicina all'età di cui si tratta in questo ottimo film prova inquietudine e disagio nel vedere le fasi che si succedono per giungere ad un'epoca in cui la vita e le funzioni della testa non appartengono più al suo proprietario, non rispondono più ai comandi. Questo è merito del protagonista Anthony Hopkins, il livello della cui recitazione si mantiene altissimo, e della sua facente funzioni di figlia nel film, Olivia Colman, per la veridicità dello svolgersi dei fatti e la loro superba interpretazione.
La progressione verso lo stato che il nostro interprete rappresenta, l'ex ingegnere Anthony che perde la nozione del tempo, delle cose e delle persone che lo circondano, coi ricordi e le percezioni sfumate e non più collegabili tra loro, è ben descritta dalle annotazioni lette, del regista e drammaturgo francese Florian Zeller (il film è la trasformazione di una sua opera teatrale) e da esperti critici, come meglio non si potrebbe dire: “...ci conduce all'interno di un labirinto … cosa significhi perdere l'orientamento … la disintegrazione della mente...“.
Tutto scivola verso il nulla, niente più da ritenere, sconfitti, verso lo stato mentale che Anthony stesso definisce come un albero che stà perdendo le foglie, la ricerca di un posto dove posare il capo, dove riconoscersi e ritrovar sé stessi, non essendo più padroni dei propri gesti e non trovare la via per recuperare le proprie cose.
La persona che regredisce a uno stato infantile, manovrabile e da proteggere … un'associazione di idee porta all'apprezzato Una sconfinata giovinezza con Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri e tanti altri, film del 2010 di Pupi Avati. Non restano che le rassicurazioni di chi ci accompagna, come l'infermiera della casa di riposo nel finale, andrà tutto bene! dice questa ad Hopkins, vincitore del suo secondo meritato Oscar. Un'ultima annotazione, una facezia: potrebbe dirsi che in Inghilterra non c'è proprio fantasia in cucina, il pollo sembra un pasto d'abitudine nel film.
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playthebluesm
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venerdì 28 maggio 2021
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un lento, amorevole, intenso, stillicidio
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THE FATHER
(recensione)
Cosa ci prepara alla morte nell’abbandono della vita?
Quanto il corpo si lasci trafiggere dalle lame della lotta per la difesa del succo della vita non ci è dato saperlo.
Ma invero, il corpo, la mente, la coscienza, cedono degli spazi graduali nella lotta gradualmente impari.
Come in una vittoria di Pirro le ferite sul campo non si contano, ed il travaglio è duro assai.
Nella visione di THE FATHER assistiamo ad un perfetto “dramma da camera”, ove lo stillicidio è lento, si, ma non meno crudele, ed il regista (un magnifico Florian Zeller) ripescando una nota pièce teatrale difficilmente riproponibile nel cinema (o almeno così credevamo), gioca una carta assai rischiosa, ma resa succosa dalla magnifica recitazione del protagonista, un Anthony Hopkins alle soglie di una immortalità anticipata, ma marmorizzata in questo ruolo, delicatissimo poiché fragilissimo, in cui il rischio di retorica del gesto era immane, insieme al facile giuogo della lacrima che l’argomento poteva in sé arrecare.
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THE FATHER
(recensione)
Cosa ci prepara alla morte nell’abbandono della vita?
Quanto il corpo si lasci trafiggere dalle lame della lotta per la difesa del succo della vita non ci è dato saperlo.
Ma invero, il corpo, la mente, la coscienza, cedono degli spazi graduali nella lotta gradualmente impari.
Come in una vittoria di Pirro le ferite sul campo non si contano, ed il travaglio è duro assai.
Nella visione di THE FATHER assistiamo ad un perfetto “dramma da camera”, ove lo stillicidio è lento, si, ma non meno crudele, ed il regista (un magnifico Florian Zeller) ripescando una nota pièce teatrale difficilmente riproponibile nel cinema (o almeno così credevamo), gioca una carta assai rischiosa, ma resa succosa dalla magnifica recitazione del protagonista, un Anthony Hopkins alle soglie di una immortalità anticipata, ma marmorizzata in questo ruolo, delicatissimo poiché fragilissimo, in cui il rischio di retorica del gesto era immane, insieme al facile giuogo della lacrima che l’argomento poteva in sé arrecare.
In realtà il suo personaggio è ispido, infastidente in moltissimi passaggi, poi di colpo tenero, poi ancora cinico, ma con una naturalezza che sbaraglia, nell’inseguimento delle sue pupille perse nel vuoto, in un’auto che lo conduce nell’ennesimo luogo che dimenticherà, intorno ad affetti dai volti che si confondono, in un roteare della vita che gli appare come un tourbillon confuso, insieme all’orologio che continuamente perde (o semplicemente dimentica), ma che per lui è ultimo aggancio alla realtà, al tempo che scorre, segnato da lancette rassicuranti. Mentre figlie si confondono ad infermiere, badanti ad estranee, le case perdono i quadri, la memoria scivola via, lo stillicidio strizza le budella allo spettatore, a qualunque essere sensibile abbia osservato le pupille di un anziano, amico o parente, ed abbia desiderato comprenderne il travaglio intimo, nel Bardo che è il passaggio alla vecchiaia. In una società che si fa dimentica dell’importanza che assurge il ruolo d’un “Vecchio”, questa pellicola è un Atto Capitale, un Teatro del Dolore meritevole del miglior Artaud.
Un solco delicato ed insieme fulgido, una impeccabile prova da viversi addosso, per comprendere quanto realmente osserviamo della fragilità della vita, della sua caducità, o quanto invece si badi alla scontatezza del sentirsi in salute, fintanto che in salute si sta. Per poi scoprirsi ineluttabilmente fragili, ma quando è troppo tardi, per dirsi esattamente “coscienti”.
Che la vita intanto scivola via, e non se ne è afferrata la reale Bellezza…
(Massimiliano Manieri)
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mauridal
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domenica 6 giugno 2021
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ma chi sono io veramente?
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THE FATHER Nulla è come sembra. un film di Di Florian Zeller.
Il regista e commediografo Florian Zeller, tratta in questo film, un tema che in qualche modo tutti hanno conosciuto, la vecchiaia e le sue conseguenze .
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THE FATHER Nulla è come sembra. un film di Di Florian Zeller.
Il regista e commediografo Florian Zeller, tratta in questo film, un tema che in qualche modo tutti hanno conosciuto, la vecchiaia e le sue conseguenze . I padri e i genitori anziani la vivono direttamente, i figli più o meno giovani, conoscono le conseguenze che la vecchiaia produce sulle persone e nel caso di Father è proprio la demenza senile , che produce in Anthony ,il protagonista un sorta di stracciamento dalle vicende vissute, ma anche un estraniamento rispetto alle persone care o vicine che a lui appartengono, come la figlia Anne e il marito, o le varie badanti e infermiere che si occupano dei lui. Dunque una storia di vecchiaia resa però attraverso un personaggio Anthony , che non accetta nella sua ragione , di essere malato di Alzheimer,e si comporta nel suo habitat ovvero la sua casa come un perfetto gentlemen con punte di forza e simpatia quando vuole presentarsi agli altri, figlia ,genero ,badanti come appunto nella perfetta normalità di tutti , senza dubbio alcuno. I guai iniziano quando la realtà si lacera e agli occhi di Anthony compaiono figure sdoppiate, irriconoscibili che da amabili persone diventano terribili nemici , ladri e finanche probabili assassini. Il pregio del film è che non è il solo Anthony a vedere e vivere questa pseudo realtà , poiché anche lo spettatore viene immerso in una storia piena di ambigue figure , e di situazioni dove “nulla è come sembra” . Il regista dirige amabilmente il grande Anthony Hopkins che rende perfettamente il disagio mentale dell’uomo, ma da grande attore qual’è crea una figura teatrale , è un personaggio che recita una normalità a cui nessuno crede ma che dovrà fare i conti con i suoi affetti veri la figlia e suo marito che non possono far fronte al problema. Il regista quarantenne, tradisce a volte la sua di angoscia di invecchiare in malo modo, o forse ha già vissuto il problema con anziani genitori . Dunque questo film drammatico, a volte scivola nel thriller di Kubrik quando tutto si svolge tra camere da letto cucine e corridoi di una grande casa ,inglese, ma dove non c’è via d’uscita per Anthony , se non guardare i bambini giocare dalla finestra. La svolta tra realtà e fantasia mentale, avviene quando la figlia Anne ben resa dalla brava attrice Olivia Colman, decide di ricoverare suo padre , in clinica per curare la malattia. Qui Anthony si ritrova da solo a ricucire la sua esistenza tra ricordi e angosce e con la certezza di dover affrontare un ultimo appuntamento che la gentile infermiera gli ricorda come una passeggiata nel parco. Qui Anthony si arrende e come spesso avviene nei vecchi, regredisce a piccolo bambino che chiama piangendo la mamma. Un film ben costruito sulla empatia tra pubblico e personaggio, con una grande emotività nel condividere la sorte di Anthony. (mauridal).
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