THE FATHER
(recensione)
Cosa ci prepara alla morte nell’abbandono della vita?
Quanto il corpo si lasci trafiggere dalle lame della lotta per la difesa del succo della vita non ci è dato saperlo.
Ma invero, il corpo, la mente, la coscienza, cedono degli spazi graduali nella lotta gradualmente impari.
Come in una vittoria di Pirro le ferite sul campo non si contano, ed il travaglio è duro assai.
Nella visione di THE FATHER assistiamo ad un perfetto “dramma da camera”, ove lo stillicidio è lento, si, ma non meno crudele, ed il regista (un magnifico Florian Zeller) ripescando una nota pièce teatrale difficilmente riproponibile nel cinema (o almeno così credevamo), gioca una carta assai rischiosa, ma resa succosa dalla magnifica recitazione del protagonista, un Anthony Hopkins alle soglie di una immortalità anticipata, ma marmorizzata in questo ruolo, delicatissimo poiché fragilissimo, in cui il rischio di retorica del gesto era immane, insieme al facile giuogo della lacrima che l’argomento poteva in sé arrecare.
In realtà il suo personaggio è ispido, infastidente in moltissimi passaggi, poi di colpo tenero, poi ancora cinico, ma con una naturalezza che sbaraglia, nell’inseguimento delle sue pupille perse nel vuoto, in un’auto che lo conduce nell’ennesimo luogo che dimenticherà, intorno ad affetti dai volti che si confondono, in un roteare della vita che gli appare come un tourbillon confuso, insieme all’orologio che continuamente perde (o semplicemente dimentica), ma che per lui è ultimo aggancio alla realtà, al tempo che scorre, segnato da lancette rassicuranti. Mentre figlie si confondono ad infermiere, badanti ad estranee, le case perdono i quadri, la memoria scivola via, lo stillicidio strizza le budella allo spettatore, a qualunque essere sensibile abbia osservato le pupille di un anziano, amico o parente, ed abbia desiderato comprenderne il travaglio intimo, nel Bardo che è il passaggio alla vecchiaia. In una società che si fa dimentica dell’importanza che assurge il ruolo d’un “Vecchio”, questa pellicola è un Atto Capitale, un Teatro del Dolore meritevole del miglior Artaud.
Un solco delicato ed insieme fulgido, una impeccabile prova da viversi addosso, per comprendere quanto realmente osserviamo della fragilità della vita, della sua caducità, o quanto invece si badi alla scontatezza del sentirsi in salute, fintanto che in salute si sta. Per poi scoprirsi ineluttabilmente fragili, ma quando è troppo tardi, per dirsi esattamente “coscienti”.
Che la vita intanto scivola via, e non se ne è afferrata la reale Bellezza…
(Massimiliano Manieri)
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