loland10
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lunedì 18 giugno 2018
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sognare la realtà...
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“La stanza delle meraviglie” (Wonderstruck, 2017) è il settimo lungometraggio del regista di Los Angeles Todd Haynes.
Dopo un anno da Cannes e otto mesi dall’uscita statunitense, ecco arrivare la pellicola anche da noi: non c’è che dire la distribuzione sincrona ed efficace…
Tratto dal libro omonimo di Brian Selznick (che ha scritto anche la scheggiatura), il film s’arrende all’evidenza dei fatti dopo il peregrinare dei personaggi tra le pieghe dei loro sogni e delle loro vite.
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“La stanza delle meraviglie” (Wonderstruck, 2017) è il settimo lungometraggio del regista di Los Angeles Todd Haynes.
Dopo un anno da Cannes e otto mesi dall’uscita statunitense, ecco arrivare la pellicola anche da noi: non c’è che dire la distribuzione sincrona ed efficace…
Tratto dal libro omonimo di Brian Selznick (che ha scritto anche la scheggiatura), il film s’arrende all’evidenza dei fatti dopo il peregrinare dei personaggi tra le pieghe dei loro sogni e delle loro vite. Dallo stesso autore un altro libro ha portato sullo schermo ‘Hugo Cabret’ (2011) di M. Scorsese (altro livello per chi scrive).
Ben e Rose vagano in tempi diversi e in strutture dissimili, l’uno per ritrovare le sue origini famigliari e suo padre dopo aver perso la madre e l’altra per conoscere di persona il suo idolo, l’attrice Lilian Mayhew.
Paralleli, incastri di tempi, colori e luoghi, vie e musei: i visi di ciascuno si perdono e si ritrovano in una New York annerita, colorata, ingrigita e variopinta.
Il cinema nel cinema come escamotage di montaggi paralleli e di visuali da ripercorrere in una metropoli lontana e muta, più attuale e musicale, fino ad essere ricostruita in un plastico silente e addormentata da tutti. La cupezza delle immagini in controluce è in un oscuro desiderio del nulla o del tutto sbeffeggiano il cinefilo più incallito per un film che i personifica i livelli di lettura e le simbiosi di viste e diverse.
Il ventaglio è doppio, i colori si separano, gli effetti si incastrano e il montaggio riavvolge i tempi con sfumature, leggerezze, bastoni e persuasioni. Tra il 1927 e il 1977 ci sono cinquant'anni di lascito e due bambini corrono i due tempi per tornare indietro ai loro sogni e per correre avanti alla storia di ciascuno. Essere sordi, essere in silenzio, essere sogni, essere certi ed esserci: i due volti si scambiano, non si vedono, si spaventano, non si conoscono, si allargano e non conoscono mai.
Film non sempre lineare e immediato, certo è, in più fasi (nella prima parte) ha dalla sua il fascino poetico e i silenzi dovuti ai personaggi (sordi appunto) che diventano emblemi liberi di un immaginario di epoche diverse dal punto di vista del grande schermo. Da un cinema muto, in tutti i sensi, è in bianco e nero si passa ad un'ambientazione grezza, vivida e intrecciata degli anni settanta. Una New York asciutta e misera, spenta e fascinosa (siamo in piena crisi economica ad un passo dal crollo delle borse del ventinove) si compiace delle vie di Rose e del suo peregrinare. Si trovano inquadrature, fermi immagini e dolcezze di pellicole degli anni addietro: un ritrovare set, dal sorriso alla paura, dal chiuso ai voli di un bambino.
Con calma, silenzio e senso attonito di una meraviglia da sogno, ci si deve perdere e addormentare per cogliere il senso di vero tepore del film che percorre non il luogo in se, ma il se come stupore dello sguardo di infanti persi nel tempo delle movenze filmiche.
E’ il fascino tra grande depressione e forme ‘spente’ alla Fritz Lang (sagome e linee, ombre e vie) come si avverte il mentore vivo di un museo di Storia Naturale che ingloba il desiderio di Ben e della meraviglia di una stanza dove il suo amico Jamie ci porta per incontrare la nostra ‘storia’.
Il plastico della grande mela appare maestosamente compresso, visualmente triste, statisticamente ingombro. La spiegazione, lunga e quasi noiosa a Ben, del lascito di suo padre e della sua forza architettonica dirama alcuni dubbi ma toglie respiro e fascinazione ad un film che da versi e rime passa ad un prosaico forzato è troppo smorto.
La musica copre quasi sempre (per oltre metà pellicola) i silenzi dei personaggi e il loro reale mutismo, come lo scambio dei tempi (e della fotografia) ci offre toni e storie diverse. E’ un fuso orario continuo e aggrovigliato, non sempre addomesticabile, pur tuttavia ‘ci va volare e stare tra le nuvole’.
I due bambini reggono bene le situazioni, sia Oakes Fegley (Ben) che Millicent Simmonds (Rose) si trovano a proprio agio nello girovagare dentro lo schermo. Julianne Moore fa Rose da adulta ma anche l’attrice che lei stessa da bambina sta cercando.
Regia ad altezza giusta nella visionarietà dei due bambini.
Voto: 7/10 (***½)
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(di antoniomontefalcone)
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vanessa zarastro
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sabato 16 giugno 2018
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la wonder-city
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“La stanza delle meraviglie” è stato definito un film-diorama, è appagante e commovente, una specie di fiaba malinconica raccontata in modo delicato e raffinato. Il regista Todd Haynes è famoso per creare atmosfere particolari e per la sua capacità di trasmetterle. Tanto per citare due suoi film che mi sono piaciuti molto, vorrei ricordare “Carol” del 2015, con Cate Blanchett e Mara Rooney, che è impregnato di un’atmosfera di grande sensualità, pieno di riflessi urbani quando in città e di foglie riflesse quando in campagna, e “Lontano da paradiso” del 2002, con la sua attrice-musa Julianne Moore, che è ambientato negli anni ’60 e dove è dipinta la suburbia e la natura del Connecticut.
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“La stanza delle meraviglie” è stato definito un film-diorama, è appagante e commovente, una specie di fiaba malinconica raccontata in modo delicato e raffinato. Il regista Todd Haynes è famoso per creare atmosfere particolari e per la sua capacità di trasmetterle. Tanto per citare due suoi film che mi sono piaciuti molto, vorrei ricordare “Carol” del 2015, con Cate Blanchett e Mara Rooney, che è impregnato di un’atmosfera di grande sensualità, pieno di riflessi urbani quando in città e di foglie riflesse quando in campagna, e “Lontano da paradiso” del 2002, con la sua attrice-musa Julianne Moore, che è ambientato negli anni ’60 e dove è dipinta la suburbia e la natura del Connecticut. Qui il regista è alle prese con l’adattamento di un testo di Brian Selznick Haynes.
A New York, una bambina (la rivelazione Millicent Simmonds) e un bambino (Oakes Fegley) cercano entrambi i genitori e sono entrambi sordi, per ragioni diverse. Rose, sordomuta dalla nascita, passa le sue giornate a ritagliare articoli sui giornali che parlavano della mamma attrice, Ben invece passa il suo tempo rovistando tra i cassetti e le carte della madre a cercare indizi che lo conducano a sapere qualcosa di suo padre.
Rose vive con il padre e scappa di casa per cercare la madre, separatasi dal marito - siamo nel 1927 – e che è un’affascinante e nota attrice e sta recitando al Promenade Theater di Broadway. Ben è in cerca di suo padre – siamo esattamente cinquant’anni più tardi - di cui poco si ricorda e del quale sa pochissimo, e tenta di trovare informazioni in una vecchia libreria vicino al Museo di Storia Naturale su Central Park West a Manhattan.
Il film narra le due storie incastrate nel montaggio dei fotogrammi: in bianco e nero con sottofondo di musica sinfonica, la storia della bimba in cerca di quell’affetto che solo il fratello Walter le saprà dare; a colori e accompagnata da musica funky anni ’70 (David Bowie in Space Oddity così canta: «ashes to ashes, funk to funky, Major Tom was just a junkie»), quella storia del bimbo rimasto orfano di madre e alla disperata ricerca di conoscere il padre. Ben è nato e cresciuto a Gunflint in Minnesota, al confine con il Canada, è abituato al freddo e alla neve ma non alla città, specie se questa città si chiama New York. Altrettanto vale per Rose che viene da una zona suburbana ricca del New Jersey, ma non vicina alla metropoli. Così Todd Haynes ci fa scoprire il tessuto urbano e sociale attraverso gli occhi dei bambini, maggiormente aperti non avendo più l’udito. La New York in bianco e nero è una città in fieri, quasi in costruzione, lì si fa spettacolo (i teatri di Broadway) e lì si fa cultura (i Musei e le librerie). Ma negli anni ’70 New York è al massimo del suo splendore, è la più grande città che in qualche modo si può ancora considerare europea, e dove si può trovare massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village Vangard), i migliori architetti (I Five Architects) al M.O.M.A. e così via.
Ben, scappato dall’ospedale dove è stato ricoverato perché colto da un fulmine che gli ha tolto la possibilità di sentire suoni e voci, prende un pullman, poi un traghetto e alla fine un Railbus che lo fa sbarcare a Harlem, il quartiere nero che lui attraversa senza soggezione. La ricostruzione che fa Haynes è scrupolosa e rispettosa del periodo (gli anni ’70) con le sue musiche e i vestiti colorati e capelli alla moda. Le due storie trovano il loro fulcro nel Museo di Storia Naturale e si sovrappongono a quella di uno splendido cabinet of curiosities, una volta esposto lì.
Il regista va avanti e indietro tra fantasia, sogno (o incubo) e desiderio, con molto garbo e senza appesantire o complicare la storia (le storie) che man mano si dipana fino ad incontrarsi sul finale.
Un ennesimo tributo alla città viene dal suo plastico analogico, detto Panorama, costruito per l’Expo internazionale (New Year World’s Fair) del 1964 voluto dal famoso urban planner Robert Moses e conservato al Queens Museum – centro educativo e museo d’arte fondato nel 1972 all’interno del Flushing Medows Corona Park (che a sua volta è diventato famoso per l’US Open di tennis) - dove convergono, nel finale, tutte le vite incontrate.
I critici di Cannes non sono rimasti entusiasti di questo film. Credo che lo abbiano troppo drasticamente paragonato a Hugo Cabrett, testo dello stesso romanziere, diretto da Martin Scorsese. A me il film ne ha evocati altri, ma soprattutto “A.I.” girato da Martin Scorzese nel 2001, su idea di Stanley Kubrick, dove il piccolo protagonista, in cerca di affetto familiare, si ritrova in una grande metropoli che forse è la vera “stanza delle meraviglie”. Probabilmente “Wonderstruck“ non è il miglior film di Todd Haynes in assoluto, ma vale la pena di vederlo per la sua confezione, per le tecniche delle scene ambientate negli anni ’20, e per le sue ricostruzioni storiche e urbane e degli ambienti museali, che sono veramente degne di nota.
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maurizio.meres
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lunedì 18 giugno 2018
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dolcissimo
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Film delizioso,tratto da un romanzo è soprattutto realizzato con una sceneggiatura solida e raffinata,le sovrapposizioni temporali sono la vera essenza del film,rasentando il fantastico per dare un immagine alla storia scorrevole e continuativa,ma secondo il mio punto di vista forse fantasticando credo che la vera natura del racconto si basa sul percorso della vita che ognuno di noi percorre in uno spazio temporale dove la nostra energia può rivivere certi determinati eventi dovuti dal dna ereditato e soprattutto dalla sensibilità emotiva in ognuno di noi.
La grande sensibilità del regista Todd Haynes già ammirata in altri suoi lavori si esprime questa volta attraverso due bambini non baciati dalla fortuna alla ricerca della loro identità e tranquillità, più che positiva l'espressione e la grandissima dolcezza che tutti e due esprimono e diffondono,sembrano due attori navigati,nel cinema la spontaneità e l'incredulità che possono diffondere dei fanciulli se sono diretti da un bravo regista diventano un qualcosa di eccezionale.
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Film delizioso,tratto da un romanzo è soprattutto realizzato con una sceneggiatura solida e raffinata,le sovrapposizioni temporali sono la vera essenza del film,rasentando il fantastico per dare un immagine alla storia scorrevole e continuativa,ma secondo il mio punto di vista forse fantasticando credo che la vera natura del racconto si basa sul percorso della vita che ognuno di noi percorre in uno spazio temporale dove la nostra energia può rivivere certi determinati eventi dovuti dal dna ereditato e soprattutto dalla sensibilità emotiva in ognuno di noi.
La grande sensibilità del regista Todd Haynes già ammirata in altri suoi lavori si esprime questa volta attraverso due bambini non baciati dalla fortuna alla ricerca della loro identità e tranquillità, più che positiva l'espressione e la grandissima dolcezza che tutti e due esprimono e diffondono,sembrano due attori navigati,nel cinema la spontaneità e l'incredulità che possono diffondere dei fanciulli se sono diretti da un bravo regista diventano un qualcosa di eccezionale.
Bravissima come solito Julianne Moore,grande interprete,detta i tempi entrando nella storia come un fantasma e diventando determinante per tutto il proseguo del film.
Ottime le ambientazioni,e direi bellissime le riprese in bianco nero che riguardato gli anni venti vissuti dalla bambina.
Ottime scelte musicali riascoltare il grande Eumir Deodato e David Bowie è sempre un piacere.
Consiglio questo film ma attenzione a non distrarsi sulle varie fasi temporali,perché sono delle piccole frasi a dare tutto il senso al film.
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flyanto
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lunedì 18 giugno 2018
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la magia e il mistero che ci circonda
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“La Stanza delle Meraviglie”, del regista Todd Haynes, rappresenta il luogo comune a cui approdano i due protagonisti nella loro estenuante ricerca dei propri genitori. Parallelemente diviso in due parti in cui ciascuna presenta il percorso compiuto dai due protagonisti in epoche diverse, lo spettatore assiste prima a quello di un bambino negli anni ‘70, rimasto orfano della mamma, che parte alla volta di New York alla ricerca del padre mai conosciuto, e poi a quello di una ragazzina negli anni ’20 che, ribellatasi al padre freddo ed incurante di lei, si dirige a New York in cerca della madre attrice. Entrambi, appunto in epoche differenti, attueranno, sia pure con accadimenti diversi, lo stesso percorso che li condurrà alla fine al Museo di Storia Naturale e, più precisamente, nella famosa stanza delle meraviglie, dove riusciranno con successo a scoprire la verità di ciò che stanno cercando.
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“La Stanza delle Meraviglie”, del regista Todd Haynes, rappresenta il luogo comune a cui approdano i due protagonisti nella loro estenuante ricerca dei propri genitori. Parallelemente diviso in due parti in cui ciascuna presenta il percorso compiuto dai due protagonisti in epoche diverse, lo spettatore assiste prima a quello di un bambino negli anni ‘70, rimasto orfano della mamma, che parte alla volta di New York alla ricerca del padre mai conosciuto, e poi a quello di una ragazzina negli anni ’20 che, ribellatasi al padre freddo ed incurante di lei, si dirige a New York in cerca della madre attrice. Entrambi, appunto in epoche differenti, attueranno, sia pure con accadimenti diversi, lo stesso percorso che li condurrà alla fine al Museo di Storia Naturale e, più precisamente, nella famosa stanza delle meraviglie, dove riusciranno con successo a scoprire la verità di ciò che stanno cercando.
Una bella storia di avventura adolescenziale ma purtroppo sin troppo prevedibile e, dunque, scontata. Sin dall’inizio si intuisce, infatti, che tra i due protagonisti esiste un certo legame e pertanto l’elemento ‘sorpresa’ finale non risulta poi tanto tale. Inoltre, il percorso compiuto dai due ragazzini è simile a moltissimi altri di pellicole precedenti dello stesso genere e così appassiona poco lo spettatore che lo segue. L’unico pregio da rimarcare è sicuramente dato dalla rappresentazione che Haynes fa delle due epoche differenti: precise e ‘perfettamente riprodotte negli abiti e negli ambienti, il regista ritrae a guisa di un film muto dell’epoca (con anche i sottotitoli dei vari dialoghi), i lontani anni ’20 e, in maniera più colorata’, psichedelica e vivace, i roboanti anni ’70.
Per tutto il resto, ripeto, purtroppo “La Stanza delle Meraviglie” risulta come un déja vu, sebbene altamente consigliabile ai ragazzi/e, ancora ‘neofiti’ del genere, della più o meno stessa età dei due protagonisti.
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samanta
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martedì 19 giugno 2018
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giaciamo tutti nel fango alcuni guardano le stelle
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Il film (Wonderstruck in originale) è pieno di buone intenzioni ma scivola malamente nella realizzazione. Ben e Rose dodicenni vivono in epoche temporali diversi il primo nel 1977 a Hoboken (New Jersey la città nativa di Frank Sinatra) e la seconda nel 1927 nel Minnesota. Entrambi sono alla ricerca, Ben del padre la cui identità la madre non vuole svelarla al figlio e non si capisce il perché anche nel finale, mentre Rose che vive con un padre nevrastenico e autoritario, è alla ricerca della madre. Entrambi fuggono di casa a New York alla ricerca del genitore, Ben dopo la morte per un incidente della madre, Rose per sfuggire al padre ed entrambi arrivati a New York vanno in un museo in cui c'é la stanza delle meraviglie, chiamata così perché piena di armadi che contengono le più svariate collezioni.
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Il film (Wonderstruck in originale) è pieno di buone intenzioni ma scivola malamente nella realizzazione. Ben e Rose dodicenni vivono in epoche temporali diversi il primo nel 1977 a Hoboken (New Jersey la città nativa di Frank Sinatra) e la seconda nel 1927 nel Minnesota. Entrambi sono alla ricerca, Ben del padre la cui identità la madre non vuole svelarla al figlio e non si capisce il perché anche nel finale, mentre Rose che vive con un padre nevrastenico e autoritario, è alla ricerca della madre. Entrambi fuggono di casa a New York alla ricerca del genitore, Ben dopo la morte per un incidente della madre, Rose per sfuggire al padre ed entrambi arrivati a New York vanno in un museo in cui c'é la stanza delle meraviglie, chiamata così perché piena di armadi che contengono le più svariate collezioni. Ben e Rose anziana si incontreranno a New York nel 1977. non dico il finale e i dettagli della trama per coloro che volessero vedere il film.
La trama del film è molto bella con un finale a sorpresa, però è lento e noioso con l'intreccio estramente confuso che solo nel finale viene capito grazie ad un'esposizione didattica di Rose anziana. E' il classico film in cui il regista (Todd Haynes un regista con una filmografia modesta iniziata nel 1995 con temi legati alle problematiche LGBT) gira un'opera che piace a lui e a pochi cinefili, ma che non interessa al pubblico, il che è confermato dall'insuccesso commerciale. La prima parte del film è girata nell'oscurità, di notte o in case malamente illuminate, se c'è il giorno la fotografia è in penombra, solo nella seconda parte finalmente c'é la luce ma i colori sono sfumati. L'ambientazione relativa a due epoche distinte è buona (ma nel 1977 le ragazze in città andavano in giro con i calzoncini corti?), la musica della colonna sonora è bella, ma non è raccordata con la scena a cui fa da sottofondo (per intenderci è come se la ripresa di un matrimonio avesse come sottofondo la marcia funebre di Sigfrido), anche in questo caso il regista ha fatto prevalere i suoi gusti personali. La recitazione in linea di massima è discreta: ottima quella Julianne Moore (Rose anziana) e quella di un sorprendente Ben giovane (Oakes Fegley) buona quella di Michelle Williams (la madre di Ben), mentre penosa è l'interpretazione di Rose giovane da parte di Millicent Simmonds. In conclusione un'occasione sprecata di presentare una bella favola adatta a tutti, anche se sconsiglio di portare i bambini che si annoierebbero.
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(di irene)
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