vanessa zarastro
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domenica 8 ottobre 2017
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amore e attivismo
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120 battiti al minutoèun film che fa soffrire, è una sorta di docu-film, un rendiconto di ciò che sono state le battaglie degli ACTUP-Paris – associazione di attivisti nata all’interno della comunità gay per difendere i diritti dei malati di Aids - alla fine degli anni ‘80 per rendere pubblico in Francia il problema del SIDA, per richiedere di propagandare i metodi di prevenzione, per le richieste di finanziare ulteriori ricerche di cure, e di prendere atto che una percentuale sempre più vasta di persone stava contraendo la malattia.
È sicuramente coraggiosa la scelta del regista di focalizzare il dibattito polito prevalentemente nelle assemblee di ACTUP-Paris e in qualche manifestazione “creativa”.
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120 battiti al minutoèun film che fa soffrire, è una sorta di docu-film, un rendiconto di ciò che sono state le battaglie degli ACTUP-Paris – associazione di attivisti nata all’interno della comunità gay per difendere i diritti dei malati di Aids - alla fine degli anni ‘80 per rendere pubblico in Francia il problema del SIDA, per richiedere di propagandare i metodi di prevenzione, per le richieste di finanziare ulteriori ricerche di cure, e di prendere atto che una percentuale sempre più vasta di persone stava contraendo la malattia.
È sicuramente coraggiosa la scelta del regista di focalizzare il dibattito polito prevalentemente nelle assemblee di ACTUP-Paris e in qualche manifestazione “creativa”. Infatti, gli ACTUP hanno realmente lanciato sangue finto e messo un gigantesco preservativo rosa sull’Obelisco di Place de La Concorde. Siamo nel 1989 sotto la presidenza di François Mitterand e sembra che il fenomeno fosse ignorato in quanto considerato la malattia degli omosessuali, delle prostitute e degli immigrati, quindi non degno di nota. Anzi, lo Stato sembrava quasi far sentire in colpa i malati come se avere quella malattia fosse una vergogna. In un certo senso, fu un caso d’ingiustizia sociale, specialmente poi nei ritardi colpevoli delle case farmaceutiche.
Il film descrive la storia d’amore tra Sean e Nathan che è affettuosa e commuove. Sean, il bravissimo Nahuel Pérez Biscayart, è un giovane di padre cileno e di madre francese, omosessuale vivace, combattivo, sempre pieno di nuove idee, ma malato di AIDS. Nathan invece è del sud della Francia (come Robin Campillo) omosessuale ma ancora sano. Hanno un bel rapporto ma alla fine Nathan si farà carico di tutta la malattia del compagno.
Il regista rappresenta la sessualità maschile in modo aggressivo, è vista un po’ come “sfogo” in un paio di casi molto esplicito come l’incontro all’ospedale tra Sean e Nathan, oppure come tra Nathan e Tribault la notte dopo la morte di Sean. Le immagini forti come danze da discoteca accentuano questo carattere di fuori dal mondo di chi non era inquadrato eterosessuale, e i 120 battiti al minuto sono quelli della musica pop anni ’90.
Robin Campillo è uno sceneggiatore e montatore francese alla sua terza regia. Vincitore del Grand Prix al festival di Cannes, 120 battiti al minutorappresenterà la Francia ai prossimi premio Oscar 2018. Pedro Aldomóvar così ha dichiarato «Ho amato il film dal primo all'ultimo minuto perché ci sono raccontate le storie di eroi veri che hanno salvato molte vite».
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udiego
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martedì 10 ottobre 2017
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non abbiate paura
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Robin Campillo con "120 battiti al minuto", apre le porte al pubblico su uno dei temi tabù che colpì soprattutto la Francia, ma in realtà un pò tutta l'Europa tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90. L'AIDS. Il regista si approccia a questo tema sviluppando la sua opera su due livelli narrativi. Il primo di stampo più documentarista, stile che caratterizza principalmente la prima parte dove ci vengono mostrate le diverse iniziative degli attivisti per sensibilizzare la gente al problema AIDS. Il secondo è di carattere più emotivo, dove il regista oltre s mostrarci gli avvenimenti dell'epoca cerca di entrare nella pancia dei personaggi, questi ragazzi giovani a volte giovanissimi travolti da una cosa a cui non erano pronti ma che segnerá inesorabilmente le loro vite.
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Robin Campillo con "120 battiti al minuto", apre le porte al pubblico su uno dei temi tabù che colpì soprattutto la Francia, ma in realtà un pò tutta l'Europa tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90. L'AIDS. Il regista si approccia a questo tema sviluppando la sua opera su due livelli narrativi. Il primo di stampo più documentarista, stile che caratterizza principalmente la prima parte dove ci vengono mostrate le diverse iniziative degli attivisti per sensibilizzare la gente al problema AIDS. Il secondo è di carattere più emotivo, dove il regista oltre s mostrarci gli avvenimenti dell'epoca cerca di entrare nella pancia dei personaggi, questi ragazzi giovani a volte giovanissimi travolti da una cosa a cui non erano pronti ma che segnerá inesorabilmente le loro vite. Il tutto è narrato in maniera più che soddisfacente. In "120 battiti al minuto" si urla, si ama, si lotta, si spera, si soffre e ci si dispera e lo si fa in modo vero e sincero. L'approccio è schietto mai banale e sempre travolgente per lo spettatore che non può che perdonare qualche carenza dal punto di vista cinematografico. Per concludere, qui, ci troviamo dinanzi ad un film che mette a nudo i sentimenti e le paure di questi ragazzi a cui è rimasta una sola cosa per cui lottare. La voglia di non morire. Voto 4/5
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flyanto
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martedì 10 ottobre 2017
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le lunghe battaglie di act-up paris
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Al di là delle polemiche sulla giusta o meno censura di vietarlo ai minori di 14 anni, "120 Battiti al Minuto" del regista Robin Campillo affronta una serie di tematiche reali ed abbastanza forti, poco adatte ai bambini, non tanto dal punto di vista morale, ma per il fatto che a loro, ancora in tenerà età e spensierati, poco interessano problematiche concernenti una sfera dell'esistenza da loro fortunatamente ancora non vissuta in prima persona e per di più espressa in una forma eccessivamente verbosa che non riuscirebbero sicuramente a seguire ed a comprendere appieno, o male.
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Al di là delle polemiche sulla giusta o meno censura di vietarlo ai minori di 14 anni, "120 Battiti al Minuto" del regista Robin Campillo affronta una serie di tematiche reali ed abbastanza forti, poco adatte ai bambini, non tanto dal punto di vista morale, ma per il fatto che a loro, ancora in tenerà età e spensierati, poco interessano problematiche concernenti una sfera dell'esistenza da loro fortunatamente ancora non vissuta in prima persona e per di più espressa in una forma eccessivamente verbosa che non riuscirebbero sicuramente a seguire ed a comprendere appieno, o male.
Preposto ciò, il film mostra la lunga, difficile e strenua lotta che il movimento di Act-up, sorto nel 1989 a Parigi sul modello di quello americano, ha condotto nel corso degli anni '90 dopo l'avvento nel decennio precedente della malattia dell'Aids. Gli attivisti di questo movimento non solo si sono battuti in svariati modi contro l'indifferenza da parte della Società e delle cariche politiche al fine di tutelare maggiormente coloro che furono colpiti da questa terribile malattia, ma anche al fine di favorire e migliorare le condizioni generali di tutte le minoranze, sia dei gay, che delle prostitute che degli immigrati. Così nel corso della pellicola si assiste ai numerosi e verbosi dibattiti di Act-up, nonchè alle azioni vere e proprie a sostegno dei loro principi e contemporaneamente ad alcune storie sentimentali nate tra alcuni dei giovani all'interno del movimento stesso ed al loro eventuale e conseguente decesso.
Un film sicuramente molto interessante che non solo, ripeto, pone in luce le svariate problematiche sorte in seguito alla diffusione della malattia dell'Aids, ma che funge anche da inno all'amore in generale, un sentimento che deve essere vissuto liberamente e senza preconcetti o remore da tutti, sebbene con attenzione per ciò che riguarda ogni tipo di prevenzione. Pertanto, lo spettatore viene reso consapevole di ciò che ha preceduto ed ha portato alle attuali condizioni e traguardi concernenti la sfera sessuale e la pellicola diventa ancor più interessante in quanto mirata soprattutto ai giovani che devono essere edotti ed educati alla libertà ed al rispetto dei sentimenti.
Premiato all'ultimo Festival di Cannes, l'unico 'neo' di quest' opera di Campillo è dato dall'eccessiva durata del film (135 minuti circa) che la rende, in quanto troppo dialogata, un poco pesante: con 20 minuti in meno essa sarebbe stata perfetta!
Consigliabile soprattutto alle giovani generazioni.
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domenica 3 dicembre 2017
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lottare per la vita
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Un film che non si limita ad incidere sulla scontata dialettica tra vita e morte che l'AIDS inevitabilmente contiene ma che prova a dare uno sguardo profondo dell'essere umano ragionando su idea e azione, mente e corpo, malattia e vita. A partire dall'alternanza delle sequenze di assemblee e azioni dirette del collettivo ci scontriamo con la morte e l'amore. L'amore è il ballo a 120 bpm nella Francia di Mitterand dei primi anni'90, è quello dei loro affetti, del piacere, delle riunioni, della lotta e delle manifestazioni. L'amore sopravvive alla morte ed è ciò che da effettivamente senso alla vita. Si tratta di un'opera in cui il vero protagonista è un insieme di persone: il collettivo Act Up.
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Un film che non si limita ad incidere sulla scontata dialettica tra vita e morte che l'AIDS inevitabilmente contiene ma che prova a dare uno sguardo profondo dell'essere umano ragionando su idea e azione, mente e corpo, malattia e vita. A partire dall'alternanza delle sequenze di assemblee e azioni dirette del collettivo ci scontriamo con la morte e l'amore. L'amore è il ballo a 120 bpm nella Francia di Mitterand dei primi anni'90, è quello dei loro affetti, del piacere, delle riunioni, della lotta e delle manifestazioni. L'amore sopravvive alla morte ed è ciò che da effettivamente senso alla vita. Si tratta di un'opera in cui il vero protagonista è un insieme di persone: il collettivo Act Up. Dal collettivo emergono alcune figure come quelle di Sean e Nathan che servono al regista per entrare nel dettaglio della sofferenza e del sentimento per essere assunte come paradigma per comprendere il resto dell'insieme. La storia dei ragazzi infatti nasce, si consuma e finisce all'interno del collettivo. Lo stile di Campillo è interessante, confeziona alcune inquadrature suggestive, passa dai campi totali delle assemblee a inquadrature al microscopio, gioca con i volti e corpi che emergono spesso dalle ombre uscendo e rientrando dall'inquadratura. Si affida ad una fotografia cupa e talvolta stridente che ci proietta nella malattia e prova a farci intuire il disagio, la sofferenza fisica e mentale che precede la morte oltre che il vuoto di chi rimane. Quando i giorni da vivere rimangono pochi, ogni azione diventa un rituale da filtrare con infinita meticolosità. Il tempo scorre inesorabile e la perdita di una persona amata è devastante e complessa da spiritualizzare. Per fortuna il collettivo, come una grande famiglia aiuta chi rimane. La morte non è la fine, tutto sfuma in nuovo piacere, nuovi balli, nuove manifestazioni azioni cortei, lotte. La vita continua. Una panoramica iper realista sulla malattia e sulla voglia di vivere resa magistralmente dal regista che fu membro attivo del collettivo Act Up e dunque testimone autentico di quelle situazioni. Un film utile se si vuole trattare tematiche legate alla malattia, alla morte ed al senso della vita.
MANUEL VULCANO
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maxlupi
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sabato 28 ottobre 2017
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da proiettare nelle scuole
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Un film meraviglioso. Storia, attori, sceneggiatura, fotografia, regia... Tutto.
Scioccante.
Complesso
Trasuda verità e vita. E morte, si.
Fa male al cuore sapere che in Italia non l'abbia visto nessuno.
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carloalberto
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giovedì 26 novembre 2020
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la pornografia del dolore
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Eurocentrico, anzi francocentrico, il film di Robin Campillo, a metà strada tra un documentario ed un drammatico, affronta la questione dell’Aids dal punto di vista di un giovane esponente della comunità gay parigina degli anni '80, privilegiando la prospettiva intimista dei suoi stessi ricordi di ex attivista del collettivo di Act Up-Paris, operativo dalla fine degli anni ’80 a Parigi, per raccontare un frammento della sua storia personale che coincise con un pezzo di società che all'epoca si sentì emarginato doppiamente, per la diversità sessuale e per quella malattia, che sembrava, nell’ignoranza diffusa, colpire soltanto gay e drogati.
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Eurocentrico, anzi francocentrico, il film di Robin Campillo, a metà strada tra un documentario ed un drammatico, affronta la questione dell’Aids dal punto di vista di un giovane esponente della comunità gay parigina degli anni '80, privilegiando la prospettiva intimista dei suoi stessi ricordi di ex attivista del collettivo di Act Up-Paris, operativo dalla fine degli anni ’80 a Parigi, per raccontare un frammento della sua storia personale che coincise con un pezzo di società che all'epoca si sentì emarginato doppiamente, per la diversità sessuale e per quella malattia, che sembrava, nell’ignoranza diffusa, colpire soltanto gay e drogati. In tal modo, tuttavia, una questione che ha interessato il mondo intero, senza distinzioni di razza e di sesso, e che rimane drammaticamente aperta, riguardando ancora il terzo mondo ed in particolare l’Africa sub sahariana, dove milioni di persone a tutt’oggi convivono con il virus e centinaia di migliaia all’anno ne muoiono, si rinchiude asfitticamente tra le quattro mura di un bilocale, indugiando, nella camera da letto del protagonista, in prolungati e compiaciuti primi piano, del tutto inutili e fastidiosamente insistiti, sui suoi rapporti omosessuali e su particolari anatomici che nulla hanno a che fare con quella patologia e le conseguenze tragiche che la stessa produce nella vita di chi ne è colpito, sia dal punto di vista fisico che psichico. Campillo cade nello stesso pregiudizio che voleva combattere o meglio si presta all’equivoco, sovrapponendo, con la fusione plastica dei corpi nudi dei due ragazzi segnati dal male, l’omosessualità all’HIV.
Campillo, però,si diletta anche nella pornografia del dolore, con sequenze lunghissime dedicate all’agonia del protagonista, ripreso finanche sul letto di morte, con il risultato di allontanare emotivamente, per reazione, lo sguardo dallo scempio che questa malattia, come tante altre, fa del corpo umano.
Insopportabile, per la lunghezza della pellicola, con molte scene superfluamente ripetute, che accostano l’immagine al microscopio del virus alle luci psichedeliche di una discoteca.
Noioso, per la ricostruzione quasi documentaristica delle manifestazioni di protesta e le interminabili riunioni del collettivo nel chiuso di un’aula, con dibattiti estenuanti su quali dovessero essere le modalità più efficaci di condurre la lotta politica contro il governo o le case farmaceutiche, insensibili alla causa della comunità gay, colpita più del resto della popolazione da quella tragedia.
Dallas Buyers Club del 2013 di Jean-Marc Vallée, dimostra come sia possibile, trattando lo stesso tema e partendo da un singolo dramma umano, coinvolgere empaticamente lo spettatore, a prescindere dal suo orientamento sessuale, ed al contempo riuscirne a fare un bellissimo film.
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