jonnylogan
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lunedì 11 marzo 2024
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poche ore all''alba
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Un thriller sindacale basato sull'opera teatrale omonima, firmata dallo scrittore Stefano Massini, a sua volta creata sulle ceneri della reale lotta delle operaie di un’azienda francese in difesa dei propri diritti. Questa la parte nevralgica della pellicola diretta da Michele Placido, presente nel ruolo di un ex proprietario di azienda dal fare molto paternalista, e assistito in fase di sceneggiatura dallo stesso Massini e dal regista Toni Trupia.
Impossibile non citare ciascun membro del cast a iniziare da una combattiva Bianca (Ottavia Piccolo), operaia afflitta da acciacchi e con trent’anni di lavoro e aneddoti sindacali sulle spalle, tutti pronti per essere narrati alle più giovani e inesperte colleghe, fra le quali s’intravedono vari stereotipi umani ben delineati da ogni attrice.
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Un thriller sindacale basato sull'opera teatrale omonima, firmata dallo scrittore Stefano Massini, a sua volta creata sulle ceneri della reale lotta delle operaie di un’azienda francese in difesa dei propri diritti. Questa la parte nevralgica della pellicola diretta da Michele Placido, presente nel ruolo di un ex proprietario di azienda dal fare molto paternalista, e assistito in fase di sceneggiatura dallo stesso Massini e dal regista Toni Trupia.
Impossibile non citare ciascun membro del cast a iniziare da una combattiva Bianca (Ottavia Piccolo), operaia afflitta da acciacchi e con trent’anni di lavoro e aneddoti sindacali sulle spalle, tutti pronti per essere narrati alle più giovani e inesperte colleghe, fra le quali s’intravedono vari stereotipi umani ben delineati da ogni attrice. Ambra Angiolini, nel ruolo della combattiva Greta. Ornella (Fiorella Mannoia), trentennale amica di Bianca e madre di Isabella (Cristiana Capotondi), anche lei operaia e al nono mese di gravidanza, fino a Marianna (Violante Placido), impiegata costretta, per un grave incidente sul lavoro, su una sedia a rotelle.
Un film capace di sviscerare le diverse ragioni che porteranno a una scelta sofferta per ogni membro del consiglio, per il quale è difficile inizialmente non cedere a una lusinga tanto semplice e seducente, al punto di essere quasi scontata perché: “cosa sono in fin dei conti sette minuti di lavoro in cambio di uno stipendio”. Una lusinga tanto banale da racchiudere pericoli che nel corso di ore di lotte fisiche e verbali saranno sviscerati.
Film che alla fine non convince però del tutto a causa di una sceneggiatura troppo sopra le righe e per le interpretazioni che vedono negli eccessi d’ira e disperazione il loro marchio preponderante, il tutto nonostante la nobiltà d’intenti iniziali e l’indubbia bravura delle attrici in gioco.
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ninoraffa
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martedì 23 gennaio 2018
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dignità contro paura
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Il controllo di uno stabilimento tessile passa a un gruppo francese e trecento operaie temono la chiusura o licenziamenti di massa. La nuova proprietà propone invece la riduzione di appena 7 minuti di pausa pranzo. Le undici rappresentanti del consiglio di fabbrica dovranno accettare quest'unica piccola condizione, apparentemente quasi indolore, oppure opporsi in nome di un principio, rischiando danni molto maggiori. Cedere un millimetro oggi, significherà cedere domani e cedere sempre, percorrendo all’indietro la strada dei diritti e della dignità: trent’anni fa la pausa pranzo era di 45 minuti, adesso 15 che si vorrebbero ridurre a 8.
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Il controllo di uno stabilimento tessile passa a un gruppo francese e trecento operaie temono la chiusura o licenziamenti di massa. La nuova proprietà propone invece la riduzione di appena 7 minuti di pausa pranzo. Le undici rappresentanti del consiglio di fabbrica dovranno accettare quest'unica piccola condizione, apparentemente quasi indolore, oppure opporsi in nome di un principio, rischiando danni molto maggiori. Cedere un millimetro oggi, significherà cedere domani e cedere sempre, percorrendo all’indietro la strada dei diritti e della dignità: trent’anni fa la pausa pranzo era di 45 minuti, adesso 15 che si vorrebbero ridurre a 8.
Tratto da un testo teatrale, “7 minuti” è un film dall’ottima scrittura, ben recitato e sceneggiato in unità di tempo, luogo e azione. Novanta minuti di fabbrica in cui si discute senza che succeda niente, coinvolgono lo spettatore in un dialogo serrato senza cali di tensione. Notevoli tutte le protagoniste, con una menzione speciale per la perfetta maschera (in latino persona) di Ottavia Piccolo, interprete di Bianca, l’operaia veterana che vede lontano nel passato e nel futuro.
Film alla Ken Loach, crudo, duro e di parte. Di sinistra, nel senso grave e tragico del termine. C’è la frammentata classe operaia post moderna, fatta di donne extracomunitarie, di ragazze neoassunte rasate e tatuate, di mogli di disoccupati a vita, di madri che non arrivano a fine mese, di operaie infortunate promosse all’invalidità in ufficio in cambio di dichiarazioni compiacenti, di vecchie operaie che hanno aggiornato Marx senza metterlo da parte, e inevitabilmente di chi deve mantenersi il posto tra le lenzuola del capo. Classe operaia che non è più classe, divisa e polverizzata da rivalità, invidie, diffidenze e razzismi, ma soprattutto da estrazioni, esperienze e quindi linguaggi diversi. Scomposte sensibilità e necessità che si affronteranno in un drammatico consiglio di fabbrica, testimone delle ragioni della dignità contro quelle della paura.
Film di parte, s’è detto, con i padroni vecchi e nuovi uniti nell’irresponsabilità sociale, nell’egoismo e nel cinismo, ammantati di buone maniere e politicamente corretto. Loro sì classe sociale, quasi a confermare il celebre incipit di Tolstoj sulla similitudine di tutte le famiglie felici, contro la disgraziata varietà di quelle sfortunate. Madame Rochette, la rappresentante della nuova proprietà, ha fretta di tornare a Parigi in serata per festeggiare il nipotino.
Cosa manca? Manca il fuori. La globalizzazione, la robotica, l’intelligenza artificiale e la stampa 3D. Mancano i padroni invisibili, remoti, asettici e ciechi della finanza, nei cui confronti i fratelli Varazzi e Madame Rochette, che almeno in fabbrica ci stanno, sono anche loro lavoratori. E per contrasto manca il governo dei fenomeni sociali nell’interesse dei deboli, e quindi una Politica degna di questo nome.
A gettare tutto questo sul tavolo del consiglio di fabbrica addosso alle nostre operaie si sarebbe scritta una storia più complicata e disperata. Le undici donne sentono la responsabilità per tutte le colleghe dello stabilimento, e anche per quelle che verranno e per le altre che lavorano altrove; come se la loro decisione facesse qualche differenza e i giochi (sulla loro pelle) non fossero comunque fatti.
Rimane il valore morale e sociale di “ 7 minuti ”. Le battaglie perse vanno comunque combattute, e anche raccontate. Meglio se bene, come in questo caso.
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robertotonini
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mercoledì 22 novembre 2017
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ho compreso si e no il 30% di cosa è stato detto
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Più che un critico sono uno che dorme male, a spezzoni, e specie la notte guardo film. Non sopporto Thriller, Cappa e Spada, Fantascienza e Azione. Per il resto guardo quasi tutto. Amo la commedia italiana, certi film francesi, i film di Mel Brooks e Tarantino, con moderazione Pedro Almodovar. Ovviamente anche i grandi italiani come De Sica, Monicelli, Germi, Olmi, fratelli Taviani, Sergio Leone.
Certi film italiani non riesco a capirli e quindi ad apprezzare. Come questo 7 minuti. Il cast è senz’altro interessante. La storia mi sembra raccontata un po’ sopra le righe, ma sono considerazioni personali che lasciano forse il tempo che trovano. Quello che veramente mi ha disturbato è che riuscivo a comprendere si e no il 30% di quello che veniva detto.
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Più che un critico sono uno che dorme male, a spezzoni, e specie la notte guardo film. Non sopporto Thriller, Cappa e Spada, Fantascienza e Azione. Per il resto guardo quasi tutto. Amo la commedia italiana, certi film francesi, i film di Mel Brooks e Tarantino, con moderazione Pedro Almodovar. Ovviamente anche i grandi italiani come De Sica, Monicelli, Germi, Olmi, fratelli Taviani, Sergio Leone.
Certi film italiani non riesco a capirli e quindi ad apprezzare. Come questo 7 minuti. Il cast è senz’altro interessante. La storia mi sembra raccontata un po’ sopra le righe, ma sono considerazioni personali che lasciano forse il tempo che trovano. Quello che veramente mi ha disturbato è che riuscivo a comprendere si e no il 30% di quello che veniva detto. Sia da un punto di vista fonico (si dice così?), certe volte con volume bassissimo – non son sordo -, certe altre volte strillato. Ma quelle che veramente mi ha colpito è stato il parlare veloce, a scatti, a mitraglietta, di molte attrici. Confesso che mi parava che parlassero a scatti e schizzi un po’ come parla e recita Michele Placido. La cosa risultava assai evidente con le due che risultavano comprensibili: Fiorella Mannoia e Ottavia Piccolo. La prima una bella sorpresa, sempre ben misurata. Ma quella che veramente era “fuori dal coro” era Ottavia Piccolo. Bellissima recitazione, ma soprattutto non ho perso una parola di quello che ha detto. Sarà il suo passato da attrice di teatro?
Peccato, perché ci avevo messo molto impegno, non è un genere che amo particolarmente, ma il tema e le attrici mi invitavano a restare. Peccato! Non si può apprezzare un film in cui i dialoghi risultano comprensibili forse al 30%.
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marce84
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giovedì 9 novembre 2017
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un inno la coraggio
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Un’azienda tessile cambia proprietà e passa da una gestione familiare a una proprietà francese.
I nuovi proprietari garantiscono che nulla verrà modificato per le lavoratrici, se non una sensibile riduzione della pausa pranzo, i 7 minuti del titolo.
Un gruppo di donne, scelte come consiglio di fabbrica deve prendere una decisione importante per il loro futuro e per quello della fabbrica. Cedere al ricatto della proprietà o difendere i propri diritti? Cedere alla paura di perdere tutto o mantenere la propria dignità?
Splendida opera di Michele Placido che mette in scena il mondo operaio al giorno d'oggi, fra precarietà, contrasti, egoismi personali e individualismi.
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Un’azienda tessile cambia proprietà e passa da una gestione familiare a una proprietà francese.
I nuovi proprietari garantiscono che nulla verrà modificato per le lavoratrici, se non una sensibile riduzione della pausa pranzo, i 7 minuti del titolo.
Un gruppo di donne, scelte come consiglio di fabbrica deve prendere una decisione importante per il loro futuro e per quello della fabbrica. Cedere al ricatto della proprietà o difendere i propri diritti? Cedere alla paura di perdere tutto o mantenere la propria dignità?
Splendida opera di Michele Placido che mette in scena il mondo operaio al giorno d'oggi, fra precarietà, contrasti, egoismi personali e individualismi. Eccellenti tutte le interpreti, che si differenziano per età, nazionalità e carattere.
Il film si concentra interamente sul dibattito fra le donne operaie, mentre la proprietà resta sullo sfondo.
In particolare spiccano Ottavia Piccolo, veterana e saggia del gruppo che cerca di far ragionare le colleghe e di incentivare e stimolare il dibattito, il dialogo, simbolo di un modo di pensare il mondo del lavoro che non c’è più, dove le organizzazioni sindacali sono praticamente estinte e dove il lavoratore cerca di pararsi il proprio tornaconto ma senza stare ad ascoltare pareri ed opinioni dei colleghi e fare fronte unito per difendere i propri diritti.
Il regista e lo sceneggiatore sono abili nell’orchestrare il dramma del dibattito con un costante climax e diversi picchi drammatici. Pur essendo ambientato nello stesso luogo, nel grigiore della fabbrica, il film non annoia, anzi proprio grazie all’interpretazione delle attrici e a una eccellente sceneggiatura mantiene lo spettatore incollato allo schermo e a riconoscere che ognuna delle operaie ha delle ragioni da difendere. Ma soprattutto, sullo sfondo, la vera protagonista è sempre la paura, compagna dei giorni nostri, sempre in agguato a rendere le persone più fragili, più vulnerabili, più ricattabili. Ecco, il film è un inno al coraggio; reso ancora più potente dal fatto che il film è tratto da una storia vera.
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valterchiappa
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martedì 6 giugno 2017
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l'importanza di riflettere
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Una storica industria tessile viene rilevata da una multinazionale francese. Le operaie tremano per il loro futuro. Un consiglio di fabbrica composto da 11 donne è chiamato a valutare la proposta della nuova proprietà, che arriva, sorprendente. L’attività continua, il posto di lavoro è salvo, tranne una richiesta, così irrisoria da sembrare uno scherzo: rinunciare a 7 minuti della pausa pranzo. La firma sembra una formalità. Ma Bianca, la rappresentante più anziana (Ottavia Piccolo) invita le colleghe a riflettere attentamente.
Cosa siamo disposti a fare per lavorare? Intorno a questa domanda ruota tutta la vicenda di “7 minuti”, consumata nello svolgersi drammatico di una discussione a porte chiuse.
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Una storica industria tessile viene rilevata da una multinazionale francese. Le operaie tremano per il loro futuro. Un consiglio di fabbrica composto da 11 donne è chiamato a valutare la proposta della nuova proprietà, che arriva, sorprendente. L’attività continua, il posto di lavoro è salvo, tranne una richiesta, così irrisoria da sembrare uno scherzo: rinunciare a 7 minuti della pausa pranzo. La firma sembra una formalità. Ma Bianca, la rappresentante più anziana (Ottavia Piccolo) invita le colleghe a riflettere attentamente.
Cosa siamo disposti a fare per lavorare? Intorno a questa domanda ruota tutta la vicenda di “7 minuti”, consumata nello svolgersi drammatico di una discussione a porte chiuse.
Tratto da una piéce teatrale di Stefano Massini, sceneggiatore assieme al regista Michele Placido, “7 minuti” si ispira alla feroce battaglia sindacale realmente combattuta dalle maestranze di una fabbrica di Yssingeaux, in Francia. Placido decide di trasportare la vicenda in una Latina dipinta con la memoria delle architetture fasciste e il grigio sconsolante dei capannoni dismessi, luogo simbolico di una popolazione diventata un coacervo di razze.
11 donne, che, con varie tipologie umane, sono chiamate a rappresentare l’intero corpo dei lavoratori: l’anziana dai valori incrollabili (Ottavia Piccolo) e la giovane che aspetta di comprendere la vita (Erika D’Ambrosio); la giovane straniera che sopporta in silenzio le molestie dal datore di lavoro (Clémence Poésy) e la donna che ha rinunciato alla giustizia per le sue gambe in cambio di un posto da ragioniera (Violante Placido); l’albanese, l’africana (Balkissa Maiga), la rumena (Sabine Timoteo): le immigrate in cerca di pane e dignità; la ragazza che trova sfogo nell’aggressività e nel pugilato (Ambra Angiolini) e quella che attende un bambino ed un futuro roseo (Cristiana Capotondi); la madre disillusa cui restano solo le sigarette (Fiorella Mannoia) e la popolana partenopea (Maria Nazionale), cui è invece sufficiente assicurarsi l’oggi.
Michele Placidoconferma la sua adesione all’impegno sociale. Al contrario di Ken Loach, che nel contemporaneo “Io, Daniel Blake” agisce sull’emotività più spinta per suscitare l’indignazione, il regista pugliese ritiene necessaria la riflessione e confeziona un film dove, in nome del suo mandato, è disposto a sacrificare la spettacolarità ed anche le sue attrici, vincolate ad un copione stringente (oltre che ad un trucco che ne mortifica il fascino). Ciò nondimeno alcune di loro sanno parzialmente svincolarsene, trovando accenti toccanti, chi utilizzando le rughe ed il mestiere consumato (Ottavia Piccolo, che è anche protagonista dello spettacolo teatrale), chi grazie ad un’interpretazione decisamente sopra le righe (in particolare la Timoteo e la Poésy, donne fragili e fermissime).
Del testo teatrale “7 minuti” conserva la rigorosa architettura: unità di tempo, luogo e d’azione, precisa caratterizzazione dei personaggi, il meccanismo ad orologeria di un ragionamento che si srotola inesorabilmente dall’assurdo fino al verosimile.
Questa costruzione, solida e fortemente cerebrale, costituisce al contempo il punto di forza e la debolezza del film. Una evoluzione controllata e graduale del flusso logico, dialoghi che sembrano seguire una traccia rigidamente segnata, pause atte a creare sospensione, dinamiche che esplodono in funzione di una tesi da dimostrare. Tutto è nella penna dello sceneggiatore e il suo ferreo schema toglie spazio all’emozione.
Ma forse è proprio questa la volontà di Massini: invitare a riflettere, la frase che Bianca ripete ossessivamente alle sue colleghe. È necessario affrancarsi da ogni tipo di trasporto pulsionale, compresi persino quelli dettato dai morsi della fame, dalle richieste dei figli, dalla lecita ambizione ad una serenità minima, per poter comprendere le logiche perverse che, magari impercettibilmente, stritolano quotidianamente i più deboli, li dividono perché non si uniscano, convogliano le loro frustrazioni verso ideali distorti (il razzismo in primis). Cosa siamo disposti a fare per lavorare? Tutto, dice Greta, la pugile, spaccando una bottiglia. E invece è proprio lì che bisogna fermarsi, tirare un respiro.
Tempi difficili. Placido e Massini ci esortano: la lotta non solo operaia, ma di ogni lavoratore non deve morire. E ci ammoniscono: pensare, pensare, pensare. E capire. 7 minuti possono sembrare niente, ma sono vita che si dona e dignità che si perde. Giorno dopo giorno, 7 minuti alla volta.
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eugenio
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martedì 6 dicembre 2016
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la guerra dei poveri
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La base è teatrale, il soggetto pure. Stefano Massini, drammaturgo e consulente artistico del Piccolo teatro di Milano aveva scritto due anni fa una piecè di grande impatto emotivo, ispirandosi a una storia vera accaduta in Francia.
7 minuti questo era il titolo, il contesto era quello della salvaguardia della propria dignità di essere umano, dei biechi giochi di poteri delle multinazionali pronti a tutto pur di risparmiare sui dipendenti lasciando cadere sotto la generica voce di “ricollocazione”.
Ma se questa parola, spada di Damocle di ogni lavoratore privato, alberga prepotentemente nei tempi bui della nostra società influenzando il nostro futuro , d’altra parte la paura che “entra nelle nostre vite" che ci fa agire d’istinto, deve essere affrontata con il giusto orgoglio di essere umano senza accettare rinunce, pur che piccole siano.
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La base è teatrale, il soggetto pure. Stefano Massini, drammaturgo e consulente artistico del Piccolo teatro di Milano aveva scritto due anni fa una piecè di grande impatto emotivo, ispirandosi a una storia vera accaduta in Francia.
7 minuti questo era il titolo, il contesto era quello della salvaguardia della propria dignità di essere umano, dei biechi giochi di poteri delle multinazionali pronti a tutto pur di risparmiare sui dipendenti lasciando cadere sotto la generica voce di “ricollocazione”.
Ma se questa parola, spada di Damocle di ogni lavoratore privato, alberga prepotentemente nei tempi bui della nostra società influenzando il nostro futuro , d’altra parte la paura che “entra nelle nostre vite" che ci fa agire d’istinto, deve essere affrontata con il giusto orgoglio di essere umano senza accettare rinunce, pur che piccole siano.
Nello spettacolo 7 minuti tradotto in film da Michele Placido che sviluppa, dopo il successo della scorsa stagione al Piccolo teatro, un dialogo a “porte chiuse” dietro le quattro mura dell’azienda, viene data voce alle undici protagoniste, tutte femminili, dell’inquietante interrogativo di accettare o meno la nuova proposta della casa madre francese dell’azienda tessile di provincia in cui lavorano, volta a salvaguardare il posto e riassunta nella riduzione della pausa del turno per tutti i dipendenti di sette minuti.
La discussione, come nel dramma teatrale, è mediata dalla “decana” Ottavia Piccolo rappresentante sindacale che cerca di far ragionare le protagoniste quanto una scelta apparentemente di poco conto come la riduzione di appena sette minuti, possa nel lungo termine essere il segnale di una rinuncia sempre maggiore: quella della propria dignità di essere umano.
L’ora e mezza del film è scandita quindi dal labile confine tra ciò che è fuori, la stampa con la solita rivoluzione mediatica dell’ennesimo “piano di rinnovamento aziendale” e il dramma vissuto all’interno dalle undici donne con discussioni che portano a cambiare continuamente il risultato delle votazioni.
7 minuti è un film corale, spaccato rappresentativo della società contemporanea al femminile. E’ un film purtroppo “didascalico” che troppo programmaticamente percorre i binari di una nota tragedia lavorativa, finendo per lasciar presagire quella guerra tra i poveri in cui i potenti sono soliti sguazzare.
E’ un film coraggioso che non si fa scudo nella disperazione delle operaie dalle riuscite interpretazioni (tra cui spicca una rossa Mannoia al suo esordio convincente al cinema e una brava Violante Placido sulla sedia a rotelle col suo dramma nascosto dell’incidente sul lavoro), di mettere alla luce il grave contesto economico e i compromessi cui si devono adattare cuori semplici con figli a carico che altro non chiedono che lavorare.
Amaro e a tratti struggente, 7 minuti cerca di superare una lotta sindacale paralizzata dietro strette di mano conniventi con i grandi dirigenti, ponendo l’accento sulla riflessione sociale delle dirette interessate, sulle loro discussioni, sui loro dubbi e incomprensioni, accentuando, in senso lato, il valore del dialogo civile e comune, la forza del gruppo,come unico collante per superare quella paura “che entra nelle nostre vite” e che, in quanto tale, può anche (e auspicabilmente deve) uscire, perché no.
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riccardo tavani
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venerdì 25 novembre 2016
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se sette minuti vi sembran pochi
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Undici donne, undici operaie, chiuse in uno spogliatoio, dentro una fabbrica vuota, deserta, attorno a un tavolo, tra gli armadietti metallici. Devono decidere della loro condizione ma – soprattutto – di quella delle loro compagne e compagni di lavoro che sono di fuori con cartelli e striscioni ai cancelli
L’azienda tessile dei Fratelli Varrazzi (uno dei quali interpretato dallo stesso Placido) sta cedendo il pacchetto di maggioranza azionaria a una multinazionale francese. Da Parigi giunge, con il primo volo della mattina, Madame Rochette per stipulare l’atto formale di accordo con la vecchia proprietà. Questo dovrà essere poi approvato dal Consiglio di Fabbrica e quindi ratificato dal resto del personale.
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Undici donne, undici operaie, chiuse in uno spogliatoio, dentro una fabbrica vuota, deserta, attorno a un tavolo, tra gli armadietti metallici. Devono decidere della loro condizione ma – soprattutto – di quella delle loro compagne e compagni di lavoro che sono di fuori con cartelli e striscioni ai cancelli
L’azienda tessile dei Fratelli Varrazzi (uno dei quali interpretato dallo stesso Placido) sta cedendo il pacchetto di maggioranza azionaria a una multinazionale francese. Da Parigi giunge, con il primo volo della mattina, Madame Rochette per stipulare l’atto formale di accordo con la vecchia proprietà. Questo dovrà essere poi approvato dal Consiglio di Fabbrica e quindi ratificato dal resto del personale. Le operaie delegano una loro rappresentate a partecipare come osservatrice alla stesura dell’accordo padronale. È Bianca – interpretata da Ottavia Piccolo –, l’operaia più esperta, con trenta anni di anzianità aziendale alle spalle.
Quando Bianca torna nello spogliatoio, tra le sue dieci compagne del Consiglio di Fabbrica, ci sono dunque poche ore di tempo per votare sì o no a quell’accordo. L’atto di cessione prevede questo: la fabbrica non chiude, non ci sarà alcun licenziamento, i turni di lavoro rimarranno immutati. La nuova proprietà chiede il taglio di soli sette minuti di pausa. Sembra un grande risultato, le delegate vogliono compattamente votare sì, per chiudere subito l’intera vicenda. L’unica che annuncia il suo voto contrario è proprio Bianca. Quando lei è entrata in fabbrica, la pausa era di 45 minuti, ridottasi progressivamente fino a 15. Tolti questi sette, ne rimarranno solo 8.
Inizia una discussione tesa, drammatica, acre, a tratti violenta, con accuse, recriminazione reciproche che spacca l’organismo di fabbrica e contrappone le singole compagne di lavoro l’una all’altra. Attraverso questo aspro confronto, Placido compie una vera e propria vivisezione dell’attuale composizione di classe umana dentro questa realtà industriale italiana. Donne sposate, single, separate, con molti, nessun figlio, immigrate dall’Africa, provenienti dall’ex Est europeo, condizionate, ricattate, soggette ad attenzioni padronali di tipo sessuale. Una composizione umana frammentata, dispersa, i cui vuoti neanche gli slanci di affetto cementati in anni di lavoro in reparto riescono autenticamente a superare.
Sta divenendo sempre più un fatto di cronaca quotidiana la recrudescenza padronale su controllo, rigida regolamentazione, riduzione, negazione delle pause lavorative, siano esse tra i turni, per il pasto o per i bisogni corporali. Una recrudescenza che tocca direttamente la sfera biopsichica più intima. Un bio-potere pervasivo che vuole appropriarsi dell’accresciuta componente sensibile, culturale, intellettiva e immateriale che ogni lavoratrice, lavoratore porta oggi all’interno del processo lavorativo, senza che essa sia loro minimamente riconosciuta.
È importante che un regista e un attore italiano di successo come Michele Placido – invece di dedicarsi a copioni che sarebbero certamente più redditizi per lui – porti sullo schermo temi legati alla condizione della resistenza operaia sul fronte del lavoro. Se pensiamo anche a un altro film operaio, quello del regista inglese Ken Loach I, Daniel Blake, vincitore di Cannes 2016, una cosa colpisce: il lavoro vivo non appare più sullo schermo cinematografico. Appare invece, e come, in un film sul lavoro precario più crudele ambientato tra Nettuno e Roma. È Sole Cuore Amore di Daniele Vicari.
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zarar
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lunedì 21 novembre 2016
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che saranno mai sette minuti?
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Film fortemente a tesi, che getta uno sguardo lucido sul mondo del lavoro oggi: la grave crisi dell’Occidente industrializzato è pagata in primo luogo dal lavoratore. E’ lui la vittima della disoccupazione, della delocalizzazione, di una perdita strisciante dei diritti guadagnati in più di un secolo di lotta operaia, della progressiva erosione della sua forza contrattuale. Come dice la vecchia sindacalista Bianca: grazie per avermi fatto capire che ormai non c’è più niente, solo la lotta brutale del singolo per la propria sopravvivenza, alla mercé di qualsiasi ricatto. Perché in quello che era una volta il rapporto sindacale e sembra oggi poco più che vuota ritualità, il lavoratore non appare più in grado di esprimere una sua forza ‘di classe’: troppa miseria, troppa concorrenza, troppa paura.
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Film fortemente a tesi, che getta uno sguardo lucido sul mondo del lavoro oggi: la grave crisi dell’Occidente industrializzato è pagata in primo luogo dal lavoratore. E’ lui la vittima della disoccupazione, della delocalizzazione, di una perdita strisciante dei diritti guadagnati in più di un secolo di lotta operaia, della progressiva erosione della sua forza contrattuale. Come dice la vecchia sindacalista Bianca: grazie per avermi fatto capire che ormai non c’è più niente, solo la lotta brutale del singolo per la propria sopravvivenza, alla mercé di qualsiasi ricatto. Perché in quello che era una volta il rapporto sindacale e sembra oggi poco più che vuota ritualità, il lavoratore non appare più in grado di esprimere una sua forza ‘di classe’: troppa miseria, troppa concorrenza, troppa paura. Di qui la cieca reazione di pancia di fronte al ricatto, la pronta rassegnazione al meno peggio, quando non la caccia irrazionale al falso nemico, la sempre perdente guerra tra poveri. Che saranno mai sette minuti di intervallo in meno richiesti dal nuovo azionista di maggioranza in un’azienda, se è mantenuto il posto di lavoro? La storia raccontata nel film offre molteplici spunti di riflessione, è seria e drammaticamente vera. La resa filmica non è altrettanto convincente, soprattutto nel confronto con gli evidenti modelli di riferimento: il classico “La parola ai giurati” di Lumet e il recente “Due giorni, una notte” dei Dardenne. Nonostante la fotografia scolpisca letteralmente i volti e giochi egregiamente con i dettagli, e il montaggio alterni con efficacia staticità e accelerazioni drammatiche, il film è troppo teatrale, troppo gridato, incapace di far interagire i personaggi in maniera credibile. Abbastanza lunare, per es., il contrasto troppo insistito, e appunto teatrale, tra la silenziosa fissità di Bianca (la forza della ragione) e lo schiamazzo o la resistenza ottusa delle compagne del comitato di fabbrica (la pancia). Contrasto simbolico, d’accordo, ma l’operazione è veramente troppo scoperta. Recitazione mediocre, se si eccettua una non attrice, Fiorella Mannoia. Due stelle e mezzo.
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travis bickle 2
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mercoledì 16 novembre 2016
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ideali vs pane
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7 minuti è un film drammatico dove 11 operaio decidono per il loro destino e per quello delle loro colleghe. Lo svolgimento della trama nel primo tempo non mi ha convinto molto. Le attrici sono state tutte bravissime. Il debutto della Mannoia è stato ottimo. La Capotondi, che vedo per la prima volta in un ruolo drammatico, mi ha colpito positivamente. Ambra Angiolini diventa sempre più brava. Maria Nazionale è stata perfetta. In ultimo ci sono due attrici che non conoscevo: la Poèsy è stata fantastica e la Timoteo è stata eccezionale con una interpretazione di una tale intensità che se fosse stato un film americano gli avrebbero dato l'oscar.
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maurizio d'anna
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martedì 15 novembre 2016
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libertà è partecipazione...
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Un grande film... grazie ad un Michele affatto Placido, anzi energico nel grattar via la ruggine dalle lotte di classe. Il risultato è uno spaccato di una realtà che si sviluppa sostanzialmente davanti ad un tavolo della pausa lavoro di una fabbrica in crisi. Un tavolo attorno al quale ruotano 11 vite, 11 profili di donna forgiati a colpi di martello, dentro una stanza che, come un Vaso di Pandora scoperchiato dalla paura del licenziamento, diventa Teatro sociale. Ecco allora che 11 donne si trasformano in 11 monadi impazzite: emergono rabbia, disagio, frustrazione, fragilità, disperazione, emarginazione ma anche la forza, la volontà, il coraggio dell'autodeterminazione al cospetto di un destino che le vuole succubi o sconfitte.
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Un grande film... grazie ad un Michele affatto Placido, anzi energico nel grattar via la ruggine dalle lotte di classe. Il risultato è uno spaccato di una realtà che si sviluppa sostanzialmente davanti ad un tavolo della pausa lavoro di una fabbrica in crisi. Un tavolo attorno al quale ruotano 11 vite, 11 profili di donna forgiati a colpi di martello, dentro una stanza che, come un Vaso di Pandora scoperchiato dalla paura del licenziamento, diventa Teatro sociale. Ecco allora che 11 donne si trasformano in 11 monadi impazzite: emergono rabbia, disagio, frustrazione, fragilità, disperazione, emarginazione ma anche la forza, la volontà, il coraggio dell'autodeterminazione al cospetto di un destino che le vuole succubi o sconfitte. Un film per idealisti e sognatori in un mondo di individualisti e pecoroni. Lo consiglio ai poco furbi come me che credono ancora che gli interessi personali possono entrare in conflitto con quelli altrui ma possono ancora generare parole come solidarietà, partecipazione, unione... libertà.
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