ninoraffa
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mercoledì 21 febbraio 2018
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uccidere il padre
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L’arte è quella dipinta o scolpita negli atelier, alla fine sempre uguale a se stessa, oppure quella irripetibile che avviene per le strade? E’ imitazione della realtà o realtà stessa? E’ pensiero che realizza la sua forma, o invenzione aperta alle impreviste forme del caso? E’ esperimento in condizioni ristrette e controllate, oppure indeterminazione che coinvolge l’universo intero?
Su queste domande fondamentali il patologico Caleb Fang non ha dubbi: l’arte è effetto, sorpresa e caos. Quand’era all’università ha scatenato un pandemonio centrando con una balestra il suo professore e mentore, Freeman, che passeggiava per i viali con altri studenti.
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L’arte è quella dipinta o scolpita negli atelier, alla fine sempre uguale a se stessa, oppure quella irripetibile che avviene per le strade? E’ imitazione della realtà o realtà stessa? E’ pensiero che realizza la sua forma, o invenzione aperta alle impreviste forme del caso? E’ esperimento in condizioni ristrette e controllate, oppure indeterminazione che coinvolge l’universo intero?
Su queste domande fondamentali il patologico Caleb Fang non ha dubbi: l’arte è effetto, sorpresa e caos. Quand’era all’università ha scatenato un pandemonio centrando con una balestra il suo professore e mentore, Freeman, che passeggiava per i viali con altri studenti. Magnifico esempio di performance art. All’arrivo di ambulanza e polizia, il docente era entusiasta dello straordinario talento artistico dell’allievo; e se lo elogiava lui – disteso sanguinante sulla barella col dardo ancora conficcato nella spalla – dobbiamo credergli senza riserve.
Caleb incontra Camille che lascia la deprecata (da lui) pittura per affiancarlo nell’arte e nella vita. Presto nasceranno Annie e Baxter, scritturati da subito nel cast familiare. Salone di un banca, Baxter a sei anni punta un revolver contro la cassiera, Caleb, guardia giurata, interviene per disarmarlo; scappa un colpo che fulmina una donna in attesa con la sua bambina: Camille crolla in un lago di sangue tra le urla disperate di Annie. Tutti i presenti rimangono impietriti davanti all’insensata tragedia. Non lo sanno ma sono loro i protagonisti: azioni, pensieri e sensazioni fanno parte dell’opera d’arte; anzi fanno di loro stessi opera d’arte. Una telecamera nascosta sta riprendendo. Nell’infinito momento di sospensione, il piccolo Baxter intinge il dito nel sangue finto sparso sul pavimento e lo assaggia con gusto, Camille risorge, Annie tramuta il pianto in sorriso e Caleb ringrazia gli attoniti partecipanti con un perfetto inchino da teatrante, ammonendoli a cogliere l’attimo perché “la vita è dolce, quindi assaporatela finché potete.”
Suggestione antica quella di fare della vita un’opera d’arte; pensiamo a Oscar Wilde e al suo Dorian Gray. Suggestione pericolosa già per se stessi, figuriamoci se applicata agli altri. Caleb maneggia arte, vita e morte come una specie di dio in terra, ben più esigente ed esclusivo di Quello che forse sta in Cielo. Baxter e Annie, chiamati bambino 1 e bambina 2, cresceranno tra una perfomance e l’altra, diretti dall’istrionico padre-regista che dà loro istruzioni di questo tipo: “Immaginate di essere morti. Paralizzati. Tutto comincia dall’alto e scende giù fino alle ossa. Tutto è morto intorno. Se riuscite a immaginare la vostra morte, ma siete capaci di tornare in vita, questo prova che potrete sopravvivere a tutto. Se avete il controllo, il caos sarà intorno a voi, ma non dentro di voi ”. Potrebbe sembrare un buon padre prodigo d’insegnamenti, ma si avvicina ai figli dal lato della morte, e li invita alla sopravvivenza e al controllo invece che all’amore. Una differenza non da poco.
Gli effetti saranno esattamente opposti: privati di un’infanzia normale, i ragazzi pagheranno. Da adulti cercheranno di fuggire portandosi dietro le loro fragilità costitutive che né alcol né ansiolitici possono rimediare. Lei più reattiva, lui più arrendevole, vivono con difficoltà gli altri e se stessi, ritrovandosi nei comuni traumi solo tra loro due.
Trascorrono anni di lontananza. La famiglia Fang non esiste più. Le performace di Caleb sono scadute; incattivito dalla diserzione dei figli che hanno sabotato la sua arte, proverà per l’ultima volta ad attirarli nella definitiva messa in scena che coronerà la sua carriera.
Storia drammatica tratta dall’omonimo romanzo di K. Wilson. Jason Bateman dirige "La famiglia Fang" senza calcare la mano, a tratti tentato dalla commedia, mantenendo comunque intatta la tensione. Bravi i quattro interpreti principali con Cristopher Walken (Caleb) sopra gli altri; buona intesa tra Kidman e lo stesso Bateman nei panni dei due fratelli nevrotici ma non troppo. Un po’ incerta la scansione temporale degli eventi nascosti che vengono rivelati nel finale.
Il centro del racconto non è la controversa arte post-moderna. Caleb è con ogni evidenza un banale regista di candid camera dall’ego ipertrofico, la cui unica vocazione è asservire moglie e figli, salvo sostituirli quando riterrà conveniente. “La famiglia Fang” tratta un’arte più impervia non solo dei suoi filmetti, ma anche dei capolavori di Michelangelo: l’arte di essere genitori. E non parla di un padre matto sfuggito all’attenzione dei servizi sociali, ma dell’abuso che ogni normalissimo genitore rischia di praticare. L’indifendibile e iperbolico Caleb è potenzialmente ogni padre che, spesso a fin di bene, scrive e assegna le parti ai figli. Ogni padre preso dalle sue idee (e ossessioni) che li strumentalizza al suo disegno, imponendo (o vietando) degli studi, uno sport, delle amicizie, una passione; che immagina, e quindi usurpa, presenti e futuri che non gli appartengono. Ogni padre che non dubita, non ascolta e non accoglie; e non aiuta a cercare quello che ogni figlio dovrà comunque trovare da sé.
L’evoluzione ha previsto due genitori (anche) perché uno protegga dall’altro. Camille, col suo amore distorto e soggiacente per Caleb, ne è complice; ad immagine di quei genitori che per debolezza, equivoco, assenza, delega o distrazione, non compensano gli squilibri dell’altro, e quando serve non lo ridimensionano.
Annie e Baxter ritroveranno se stessi anche grazie ai mestieri che si sono scelti. Con buona pace di Caleb, scrittura e cinema svolgeranno per loro quella funzione catartica che Aristotele assegnava all’arte migliore. Ma prima dovranno recidere il legame. Nello scontro finale Caleb getterà la maschera e la scaglierà loro addosso – i miei genitori hanno danneggiato me… voi, se avrete figli, li danneggerete – ricapitolando, ancora una volta a suo uso, una sinistra legge ereditaria universale per niente necessaria.
Morale di stretta osservanza freudiana. Per venire pienamente al mondo – o rinascere, nel caso la nascita sia stata ostacolata e rimandata – bisogna uccidere i genitori. Annie lo ha scritto da ragazzina in una canzone che è la chiave di tutta la storia. Alla fine si tratta di ribaltare su Caleb la sua stessa lezione; lui che una mattina ha ucciso con la balestra il suo maestro.
Uccidere i genitori nella metafora e nella mente. E dopo averli uccisi – il film è finito, siamo noi ad andare oltre – si potrà risorgere. E vivere. Seppure con le ferite indelebili che sono rimaste dentro. E poi col tempo smettere di odiare. Per trovare un senso, e per credere – almeno un poco – nelle cose che verranno.
E infine perdonare. Purificato ogni abuso e ogni dolore.
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maraj
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domenica 4 settembre 2016
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e allora?
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“Se avrete dei figli, li danneggerete. E’ questo che fanno i genitori; e allora?”.
Questa è la frase del trailer che mi ha spinta ad andare a vedere questo film, nonostante una cordiale antipatia nei confronti della Nicole Kidman post-botox. E la medesima frase che purtroppo, ben prima della metà del film, svela già come andrà a finire. Di fatto, c’è ben poco dello spettacolo complessivo che non sia stato inserito nelle sequenze promozionali, aiutate anche da un montaggio assai più sapiente di quello della pellicola.
Di questo film non si può dire che sia brutto o noioso, ma non se ne può neanche dire il contrario. Personalmente, questa è stata una delle rare volte in cui sono uscita dalla sala senza sapere esattamente cosa dire.
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“Se avrete dei figli, li danneggerete. E’ questo che fanno i genitori; e allora?”.
Questa è la frase del trailer che mi ha spinta ad andare a vedere questo film, nonostante una cordiale antipatia nei confronti della Nicole Kidman post-botox. E la medesima frase che purtroppo, ben prima della metà del film, svela già come andrà a finire. Di fatto, c’è ben poco dello spettacolo complessivo che non sia stato inserito nelle sequenze promozionali, aiutate anche da un montaggio assai più sapiente di quello della pellicola.
Di questo film non si può dire che sia brutto o noioso, ma non se ne può neanche dire il contrario. Personalmente, questa è stata una delle rare volte in cui sono uscita dalla sala senza sapere esattamente cosa dire. La narrazione non procede a rilento, e tuttavia si trascina piuttosto stancamente e senza significativi colpi di scena, dato che ogni evento sembra banalmente consequenziale a ciò che lo ha preceduto e, in un certo senso, preparato. Ma quello che stona di più, a mio parere, è il contrasto tra la profondità dei temi affrontati e la disarmante superficialità con cui vengono trattati soprattutto da una sceneggiatura del tutto priva di spessore. Alla fine, il dialogo tra genitori e figli sacrificato in nome di una vita votata unicamente alla performance artistica sembra quasi uno specchietto per allodole con la funzione di nobilitare dei comunissimi, sordidi conflitti familiari, generati più dall’unione di personalità disfunzionali che dal fuoco sacro dell’arte. Ma nessuno dei due aspetti viene approfondito a sufficienza: né l’origine e l’evolversi di una rete di rapporti tanto esacerbati, né tantomeno il percorso di scelte artistiche e professionali, che rimane – e questo vale per tutti e quattro i protagonisti – alquanto nebuloso. Tanta carne al fuoco, insomma, ma gestita in una cucina decisamente sottodimensionata, con un risultato deludente su quasi tutti i fronti. Si salva la performance della banca, grottesca ed esilarante al tempo stesso, anche se per godersela era sufficiente fermarsi al trailer.
Soltanto allo scorrere dei titoli di coda ho scoperto che questo film è stato tratto da un romanzo (che ovviamente non ho letto, ignorandone l’esistenza: mea culpa, lo confesso, la mia unica scusante è che al momento sono impegnata con Proust); forse varrebbe la pena darci un’occhiata, giusto per verificare se questo sia uno dei tanti casi in cui la parte migliore della storia è stata fagocitata dai tempi cinematografici, o se invece il materiale era scarso sin dall’inizio.
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flyanto
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lunedì 5 settembre 2016
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una famiglia del tutto particolare
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"La Famiglia Fang", tratta dall'omonimo romanzo dello scrittore Kevin Wilson, è la trasposizione cinematografica che ne fa l'attore Jason Bateman, qui in veste anche di regista. Essa non è la tipica famiglia americana ma, composta di padre, madre e due figli (un maschio ed una femmina) risulta essere alquanto particolare ed, in ogni caso, ben al di fuori dallo standard classico di nucleo familiare. I genitori sono due artisti che inventano e portano sulla scena situazioni più o meno paradossali ed in esse coinvolgono anche i figli sin dalla loro più tenera età. Ma col passare degli anni, i ragazzi, crescendo, presentando nel corso delle loro esistenze degli evidenti segni di "disadattamento" o, comunque, una vera e propria difficoltà a vivere la propria esistenza serena e regolare.
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"La Famiglia Fang", tratta dall'omonimo romanzo dello scrittore Kevin Wilson, è la trasposizione cinematografica che ne fa l'attore Jason Bateman, qui in veste anche di regista. Essa non è la tipica famiglia americana ma, composta di padre, madre e due figli (un maschio ed una femmina) risulta essere alquanto particolare ed, in ogni caso, ben al di fuori dallo standard classico di nucleo familiare. I genitori sono due artisti che inventano e portano sulla scena situazioni più o meno paradossali ed in esse coinvolgono anche i figli sin dalla loro più tenera età. Ma col passare degli anni, i ragazzi, crescendo, presentando nel corso delle loro esistenze degli evidenti segni di "disadattamento" o, comunque, una vera e propria difficoltà a vivere la propria esistenza serena e regolare. Quando un giorno i genitori scompaiono improvvisamente facendo credere di essere stati vittime di un serial killer, i figli non credono e non accettano questa versione dei fatti e partono alla ricerca degli stessi, approdando alla sconcertante verità.
Sin dai tempi, per esempio, de "I Tennenbaum", al cinema sono state presentate svariate tipologie di famiglie originali e pertanto fuori degli schemi e la famiglia dei Fang non si discosta molto da questa peculiarità, vivendo un'esistenza molto al di fuori dal comune ed influenzandone conseguentemente i propri figli che, una volta cresciuti, risentiranno profondamente della mancanza generale di regole e di punti fissi. Senza alcun dubbio questa pellicola mette in evidenza ed affronta le molteplici problematiche concernenti il rapporto genitori-figli: se sia giusto, per esempio, coinvolgerli direttamente nei propri stili di vita e soprattutto nelle proprie performances artistiche, se sia giusto improvvisamente abbandonarli o meno, insomma se e quanto i genitori siano veramente i reali responsabili della condizione, più o meno critica, in cui i figli si troveranno una volta adulti. Ma al di là di tutto ciò, peraltro assai interessante come tematica, il film risulta poco riuscito nel suo intento apparendo come un'opera noiosa e nello stesso tempio pretenziosa. Bravi, ma altre volte hanno dato miglior prova di sè, sono gli attori Christopher Walken nella parte del padre e Nicole Kidman in quella della figlia, ma ciò non è sufficiente a risollevare il film. Un vero peccato!
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flaw54
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martedì 6 settembre 2016
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film strano
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Non conosco il romanzo da cui è tratto il film, ma l' argomento mi appare assai forzato e fuori da ogni v orma di realismo. Definire arte le azioni dei Fang sembra una boutade e infatti la prima parte del film è veramente no io sa e talvolta involontariamente ridicola. Migliore la seconda parte dopo la scomparsa dei genitori, grazie soprattutto ad una ritrovata Nicole Kidman che recupera credibilità artistica insieme ad un volto molto più "umano" dopo le devastanti azioni di lifting. Sempre ai limiti della farsa Christopher Walken che non ha mai saputo ripetere l' indimenticabile ruolo di Nick ne il cacciatore. Forse avrei fatto meglio a vedere Jason Bourne.
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vanessa zarastro
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giovedì 1 settembre 2016
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arte, narcisismo e paternità
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Nel film La famiglia Fang si riscontrano almeno tre tematiche diverse:
- il rapporto realtà/finzione nell’arte in generale, ma nella performance art in particolare
- il problema del rapporto genitori/figli quando essi possono essere di ostacolo agli artisti, oppure, coinvolti fin da bambini, si sentono usati e non amati. Ne consegue un’incapacità a spiccare il volo, di emanciparsi, di trovare la propria strada, attraverso quella “uccisione del padre” di cui la psicoanalisi tradizionale si è sempre occupata.
- un legame affettivo tra i fratelli solidali e complici da un lato, ma legati fin troppo, in un certo rapporto al limite dell’incestuoso – bella è la scena dei due bambini costretti a recitare Romeo e Giulietta con bacio annesso.
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Nel film La famiglia Fang si riscontrano almeno tre tematiche diverse:
- il rapporto realtà/finzione nell’arte in generale, ma nella performance art in particolare
- il problema del rapporto genitori/figli quando essi possono essere di ostacolo agli artisti, oppure, coinvolti fin da bambini, si sentono usati e non amati. Ne consegue un’incapacità a spiccare il volo, di emanciparsi, di trovare la propria strada, attraverso quella “uccisione del padre” di cui la psicoanalisi tradizionale si è sempre occupata.
- un legame affettivo tra i fratelli solidali e complici da un lato, ma legati fin troppo, in un certo rapporto al limite dell’incestuoso – bella è la scena dei due bambini costretti a recitare Romeo e Giulietta con bacio annesso.
I tre argomenti trattati nel film - e immagino anche del romanzo omonimo di Kevin Wilson - si rincorrono, si sovrappongono, ma sono trattati in modo un po’ affastellato e mai approfonditamente. Su ognuno di essi si sarebbe potuto impostare un film intero.
Siamo negli Stati Uniti e nel film vengono coperti 40 anni di vita. Caleb e Camilla Fang sono due performer artists che amano intervenire nel tessuto sociale per stupire e provocare reazioni della gente, spesso eccedendo. Sarà arte o truffa? si chiedono i due giornalisti critici d’arte. Sembra che si debbano sempre superare nelle performances schockando sempre più la gente, pubblico inconsapevole. Conosco abbastanza questo genere perché ho un vecchio amico artista inserito in questo filone, che iniziò il suo percorso molti anni fa disegnando falsi segnali stradali, ubicandoli nella città e filmando le reazioni del pubblico. Così i Fang vivono sempre in una sorta di border line tra la realtà e la finzione. Si feriscono? Il sangue sarà finto o sarà vero? Inventano false rapine in banca utilizzando il figlio piccolo come ladro, inscenando false sparatorie e falsi feriti. Più in là con gli anni si accontentano di distribuire alla gente falsi coupons per fried chicken gratis di fronte al baracchino che li vende chiedendo ai figli di filmare la scena.
Caleb, il capofamiglia (un magnifico Christopher Walken) è di un narcisismo cosmico; è un padre castrante che non ha accettato l’abbandono dei figli, quindi li distrugge con critiche feroci: secondo lui Baxter (lo stesso Jason Bateman quasi più bravo come attore che come regista) scrive robetta e Annie (la poco convincente Nicole Kidman super botulinata) recita in filmacci. Non dico di più della storia per non togliere quella poco sufficiente suspense del film, specie nella parte centrale che tratta della morte, vera o supposta, dei genitori di Annie e Baxter.
La famiglia Fang è un film che presenta belle fotografie, buona musica e attori bravi – a parte la Kidman che delude – anche nella versione di giovani e bambini in lunghi flash-back, ma non riesce a coinvolgere totalmente. Forse manca di ritmo o forse qualche errore di trasposizione dal romanzo. E pensareche la sceneggiatura è di David Lindsay-Abaire, premio Pulitzer nel 2007 per il dramma Rabbit Hole.
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liuk!
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martedì 24 gennaio 2017
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bateman poco incisivo
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Jason Bateman si cimenta come regista ma senza lasciare il segno ed anzi dimostrando grossi limiti.
La scelta del copione è buona, ottimo il casting ma lo sviluppo lascia molto a desiderare. Con un plot così particolare e potenzialmente esplosivo si sarebbe potuto innescare una dramma dai sentimenti forti o anche una commedia esilarante, purtroppo invece ne viene fuori un prodotto piatto, quasi frettoloso.
Il rapporto genitori/figli, che alla base di tutto il plot, è banale, impersonale, non trasmette nulla. Fa impressione vedere una Kidman così fuori parte, totalmente estraniata, quasi non creda nemmeno lei a quello che sta facendo. Meno peggio Walken, ma da solo non basta.
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Jason Bateman si cimenta come regista ma senza lasciare il segno ed anzi dimostrando grossi limiti.
La scelta del copione è buona, ottimo il casting ma lo sviluppo lascia molto a desiderare. Con un plot così particolare e potenzialmente esplosivo si sarebbe potuto innescare una dramma dai sentimenti forti o anche una commedia esilarante, purtroppo invece ne viene fuori un prodotto piatto, quasi frettoloso.
Il rapporto genitori/figli, che alla base di tutto il plot, è banale, impersonale, non trasmette nulla. Fa impressione vedere una Kidman così fuori parte, totalmente estraniata, quasi non creda nemmeno lei a quello che sta facendo. Meno peggio Walken, ma da solo non basta.
Per il momento boccio il Bateman regista, ma essendo persona simpatica ed esperta penso si potrà rifare in futuro.
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mario nitti
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sabato 3 settembre 2016
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buone idee, buoni attori, molta noia
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Partiamo dal commento: buone idee, buoni attori, molta noia.
La famiglia Fang è a suo modo famosa perché i genitori hanno realizzato performance artistiche insieme ai figli, creando situazioni strambe e filmando le reazioni dei presenti. Ad un certo punto i genitori spariscono e i figli cercano di capire se si tratta di una ultima, estrema performance o dell’omicidio commesso da un serial killer.
L’idea era originale, il gioco delle relazioni poteva essere approfondito, la riflessione sul rapporto tra realtà e finzione diventare il centro dell’analisi, l’aspetto del thriller era potenzialmente intrigante e bella l’idea di vivere una vita rompendo gli schemi e rompendo con gesti fatti per stupire la noia del quotidiano.
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Partiamo dal commento: buone idee, buoni attori, molta noia.
La famiglia Fang è a suo modo famosa perché i genitori hanno realizzato performance artistiche insieme ai figli, creando situazioni strambe e filmando le reazioni dei presenti. Ad un certo punto i genitori spariscono e i figli cercano di capire se si tratta di una ultima, estrema performance o dell’omicidio commesso da un serial killer.
L’idea era originale, il gioco delle relazioni poteva essere approfondito, la riflessione sul rapporto tra realtà e finzione diventare il centro dell’analisi, l’aspetto del thriller era potenzialmente intrigante e bella l’idea di vivere una vita rompendo gli schemi e rompendo con gesti fatti per stupire la noia del quotidiano. Tante possibilità, ma scarso il risultato. Il primo tempo è di una noia mortale, ho davvero rischiato di addormentarmi in sala, ma fortunatamente la mia poltroncina un po’ scomoda l’ha impedito. Il secondo tempo riprende un po’ il ritmo, ma non decolla e arriva con fatica ad un finale banalotto e insipido. Sprecato un buon testo di partenza e inutile il cast con un quartetto di ottimi attori.
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felicity
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giovedì 24 gennaio 2019
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riflessione su arte e vita e tra realtà e finzione
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Due figli, troppo piccoli per rendersi conto di essere sfruttati da genitori egoisti in un ricatto emotivo nel nome del sacro fuoco dell'arte.
Un quadro familiare che emerge, tra sorrisi e pazzie, profondamente malinconico.
Gli stessi due, adulti, in crisi, insicuri, alcolizzati e squattrinati si muovono in un film che oscilla tra dramma, mistery, dark comedy senza mai intraprendere una direzione precisa.
Ma questa incertezza rende "La famiglia Fang" sicuramente intrigante, ma altrettanto confuso.
Pur non brillando per scelte o qualità tecniche, comunque "La Famiglia Fang" conserva il pregio di portare alla ribalta una riflessione non solo sull'arte in generale e sul suo potenziale d'ingerenza, ma soprattutto sulla complessità del rapporto genitori-figli e sulla sempreverde questione del cosa significhi diventare adulti, maturare e crescere.
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Due figli, troppo piccoli per rendersi conto di essere sfruttati da genitori egoisti in un ricatto emotivo nel nome del sacro fuoco dell'arte.
Un quadro familiare che emerge, tra sorrisi e pazzie, profondamente malinconico.
Gli stessi due, adulti, in crisi, insicuri, alcolizzati e squattrinati si muovono in un film che oscilla tra dramma, mistery, dark comedy senza mai intraprendere una direzione precisa.
Ma questa incertezza rende "La famiglia Fang" sicuramente intrigante, ma altrettanto confuso.
Pur non brillando per scelte o qualità tecniche, comunque "La Famiglia Fang" conserva il pregio di portare alla ribalta una riflessione non solo sull'arte in generale e sul suo potenziale d'ingerenza, ma soprattutto sulla complessità del rapporto genitori-figli e sulla sempreverde questione del cosa significhi diventare adulti, maturare e crescere.
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iuriv
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martedì 4 ottobre 2016
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nicole.
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La vicenda dei Fang e della loro predisposizione all'arte è un dramma lieve, costruito da Bateman con la necessità di far presto. Questo si nota soprattutto nella prima metà del film, quando il regista ci presenta i personaggi ricorrendo un po' troppo alla parola.
Poi la storia prosegue con uno strano intreccio e tenta di proporsi come romanzo di formazione, attraverso il quale i due fratelli tentano di trovare una propria dimensione, indipendente dall'ossessionante dedizione all'arte del padre. L'aspetto straniante della narrazione, il contesto particolare e l'eccentricità dei personaggi consentono a Bateman di mettere in scena un'opera dall'aspetto interessante. Certo, se non si considera l'infausta presenza di Nicole Kidman.
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La vicenda dei Fang e della loro predisposizione all'arte è un dramma lieve, costruito da Bateman con la necessità di far presto. Questo si nota soprattutto nella prima metà del film, quando il regista ci presenta i personaggi ricorrendo un po' troppo alla parola.
Poi la storia prosegue con uno strano intreccio e tenta di proporsi come romanzo di formazione, attraverso il quale i due fratelli tentano di trovare una propria dimensione, indipendente dall'ossessionante dedizione all'arte del padre. L'aspetto straniante della narrazione, il contesto particolare e l'eccentricità dei personaggi consentono a Bateman di mettere in scena un'opera dall'aspetto interessante. Certo, se non si considera l'infausta presenza di Nicole Kidman.
Non è corretto giudicare una prestazione solo dall'aspetto fisico di chi la produce: ma qui è davvero inevitabile. La faccia gommosa dell'attrice australiana rischia di dare una picconata fatale alla sottile impalcatura che tiene insieme la pellicola.
L'intera storia si regge sul rapporto di muto soccorso tra i due protagonisti. Una relazione molto intima e profonda, che è radicata nel tempo e che caratterizza fortemente l'andamento della trama.
Ma i due non si prendono mai. Bateman (interprete oltre che regista) tenta disperatamente di interagire con la collega. Ma dalla bambola di porcellana che si trova vicino non riesce ad ottenere nulla più di qualche sommovimento inespressivo.
Gli autori hanno anche cercato di costruire attorno a lei il ruolo da attricetta dalla carriera poco riuscita, forse per giustificare, pur senza nominarli mai, gli evidenti ritocchi estetici come corrispettivo dell'insicurezza che si porta dietro fin dall'infanzia.
Ma la cosa non funziona. Kidman non riesce ad empatizzare minimamente con uno spettatore troppo distratto dal silicone. Così tutto appare artificiale, quasi come il trucco svelato di un illusionista.
Al termine della visione si ha l'impressione di aver assistito a uno spettacolo dal gran potenziale, ma a cui manca qualcosa. Forse l'anima, seppellita dal botox.
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domenica 9 ottobre 2016
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magnifico
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che dire, siccome credo che artisti si è e non li si fa questo film è perfetto, una famiglia fa della propria vita una opera artistica, il messaggio è chiaro e non mi interessa recitazione o fotografia o scelte narrative.
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