tiziana stanzani
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venerdì 20 febbraio 2004
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un altro moro
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Bellocchio, il regista del sogno, ci propone una visione alternativa eppur coerente di quei tragici eventi del 1978, quando Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle BR. E’ addirittura imbarazzante vedere quei quattro brigatisti che sembrano compiere una marachella, coi pugni in tasca, come bambini traditi: e come bambini impauriti alle prese con un gioco più grande di loro, si addormentano sul divano e vengono portati di peso a dormire, come bambini si preoccupano degli uccelli in gabbia, hanno il crocefisso sul letto, e spiano i grandi dal buco della serratura per assicurarsi che ci siano, magari pronti a difenderli ma da poter accusare. L'adulto che rappresenta il Potere (quel potere che finalmente sembra rassegnato ma sembra anche non capire) infine li spaventa, quando si ammanta di umanità.
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Bellocchio, il regista del sogno, ci propone una visione alternativa eppur coerente di quei tragici eventi del 1978, quando Aldo Moro fu rapito e ucciso dalle BR. E’ addirittura imbarazzante vedere quei quattro brigatisti che sembrano compiere una marachella, coi pugni in tasca, come bambini traditi: e come bambini impauriti alle prese con un gioco più grande di loro, si addormentano sul divano e vengono portati di peso a dormire, come bambini si preoccupano degli uccelli in gabbia, hanno il crocefisso sul letto, e spiano i grandi dal buco della serratura per assicurarsi che ci siano, magari pronti a difenderli ma da poter accusare. L'adulto che rappresenta il Potere (quel potere che finalmente sembra rassegnato ma sembra anche non capire) infine li spaventa, quando si ammanta di umanità. Per questo va ucciso, perché fa paura, ovvero aiuta a crescere e perciò deve essere distrutto. Solo per Chiara non è così. La terrorista, che sembra simbolizzare l’unico barlume di lucidità e di compassione, l’unico anelito di identità personale, alla fine si ribella, ma non può nulla. Alla Mostra di Venezia il film è stato accolto con un lungo scroscio di applausi ma non ha ottenuto il vero plauso che meritava: come se il terrorismo fosse cosa nostrana, e - peggio - di altri tempi. Peccato che non sia stato apprezzato maggiormente, perché le sottigliezze psicologiche sono tante e notevoli, e il regime emozionale spesso raggiunge picchi così intuitivi da far scorgere messaggi non scritti, come l’evidente preparazione al banchetto degli avvoltoi, i politici occhialuti degli anni settanta, già pronti a vivere di rendita sul nuovo agnello sacrificale. Religione e politica sono imbrigliate nella stessa pasta del dogma, comunismo e fascismo si fondono in un unico colore, le facce pietrificate della televisione si oppongono al sorriso di Moro. Un Paese senza un’identità nazionale, allora come ora - Presidente, sa chi siamo? - si rispecchia sullo schermo mischiato a canti comunisti, alle sfilate della Piazza Rossa, e frammenti di Rossellini si contrappongono a sciocche trasmissioni televisive. Il tutto condito con le eccezionali musiche dei Pink Floyd e di Schubert, sapientemente misurate come i ricordi confusi. Le strepitose interpretazioni di Maya Sansa e di Luigi Lo Cascio (con due personaggi molto diversi rispetto a quelli interpretati ne “La meglio gioventù) e dello stupefacente Roberto Herlitzka mi confermano che il cinema italiano è più vivo che mai.
Italia, 2003
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claudio a.
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giovedì 2 ottobre 2003
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a venezia si sono indubbiamente sbagliati
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Ciò che del film colpisce di più è la serie di immagini forti, incandescenti. Il clima pesante degli anni di piombo visto tra la gente degli autobus e delle università, i canti dei partigiani invecchiati, le immagini di repertorio della rivoluzione bolscevica e del periodo tragico del sequestro del presidente DC, tutto si trasforma in un’indelebile epopea di suggestioni storico-ideologiche che accompagnano la vicenda umana della protagonista. Il caso Moro visto dalla prospettiva femminile è senza dubbio un’idea interessante; la brigatista sfugge alle incoerenze delle vicende che si susseguono nel periodo più critico della sua vita (tra telegiornali e varietà televisivi dell’epoca) attraverso una sequenza di visioni di eventi che vorrebbe si realizzassero e che, come spesso accade, non si concretano.
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Ciò che del film colpisce di più è la serie di immagini forti, incandescenti. Il clima pesante degli anni di piombo visto tra la gente degli autobus e delle università, i canti dei partigiani invecchiati, le immagini di repertorio della rivoluzione bolscevica e del periodo tragico del sequestro del presidente DC, tutto si trasforma in un’indelebile epopea di suggestioni storico-ideologiche che accompagnano la vicenda umana della protagonista. Il caso Moro visto dalla prospettiva femminile è senza dubbio un’idea interessante; la brigatista sfugge alle incoerenze delle vicende che si susseguono nel periodo più critico della sua vita (tra telegiornali e varietà televisivi dell’epoca) attraverso una sequenza di visioni di eventi che vorrebbe si realizzassero e che, come spesso accade, non si concretano. Anche la musica è d’effetto (Pink Floyd, Schubert) così come son d’effetto i vari trade-off dottrinali: ateismo/cattolicesimo, fascismo/resistenza, moderatismo/oltranzismo.
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theophilus
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giovedì 20 marzo 2014
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un'utopia coraggiosa
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BUONGIORNO, NOTTE
Lasciate alle spalle le polemiche per il mancato Leone alla 60. mostra internazionale del cinema di Venezia, abbiamo ammirato il film di Bellocchio per le sue qualità umane e registiche e per l’intenso coinvolgimento civile e morale che sono, di per sé, garanti del felice esito di un’opera che, invece, un pur solido approccio di parte non avrebbe probabilmente saputo assicurare. Buongiorno, notte ha saputo trovare un solido equilibrio fra rappresentazione storica e immaginazione, fra dolore e dovere, sofferenza e dubbio, svelando delle crepe umane in quella apparentemente non scalfibile e irriducibile macchina da guerra allo stato che, così sembra, furono le Br: è stato probabilmente questo approccio umanistico che ha favorito l’unanime giudizio positivo di tutte le parti politiche, senza, per questo, scandalizzare nessuno.
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BUONGIORNO, NOTTE
Lasciate alle spalle le polemiche per il mancato Leone alla 60. mostra internazionale del cinema di Venezia, abbiamo ammirato il film di Bellocchio per le sue qualità umane e registiche e per l’intenso coinvolgimento civile e morale che sono, di per sé, garanti del felice esito di un’opera che, invece, un pur solido approccio di parte non avrebbe probabilmente saputo assicurare. Buongiorno, notte ha saputo trovare un solido equilibrio fra rappresentazione storica e immaginazione, fra dolore e dovere, sofferenza e dubbio, svelando delle crepe umane in quella apparentemente non scalfibile e irriducibile macchina da guerra allo stato che, così sembra, furono le Br: è stato probabilmente questo approccio umanistico che ha favorito l’unanime giudizio positivo di tutte le parti politiche, senza, per questo, scandalizzare nessuno.
Bellocchio ha dato il giusto spazio al processo intentato alla figura di Moro, alla sua autodifesa – personale prima che politica – alla teorizzazione assoluta, avulsa da ogni concessione, legame popolare o dipendenza con la situazione storico/politica di allora, della lotta armata da parte di un manipolo di che cosa? Macchinette disperate? Combattenti in nome di una fede appresa dai libri? Non è questa la sede per rifare il processo ai brigatisti, che si sono già dissociati e sciolti. Rimane, però, in chi scrive, il dubbio sull’accadimento dei fatti di allora, sugl’intenti dichiarati e, di conseguenza, sull’attendibilità delle fonti storiche da cui il film prende le mosse, un libro scritto dalla brigatista Braghetti.
Detto questo e supponendo un analogo scetticismo nel regista, si ha – proprio grazie a ciò – una più ampia libertà di giudizio critico sul film in sé, così come Bellocchio deve aver avuto le mani più libere nella sua costruzione. Se così per alcuni la figura di Moro non esce dal film, noi riteniamo che ciò si debba ascrivere al fatto che quel processo allora si svolse in modo molto diverso o, addirittura, non ci fu affatto. Abbiamo, pertanto, potuto ammirare più serenamente e più particolarmente apprezzare quelle scene in cui Chiara (una bravissima Maya Sansa) osserva il carcerato dallo spioncino della porta che lo tiene prigioniero: la macchina da presa ha il pretesto per concentrarsi su quegli occhi dallo sguardo intensissimo che rivelano l’insanabile lacerazione fra la missione politica da non tradire e l’assurdità di quella tragedia umana. Questo ci è parso il succo del film di Bellocchio che, di fatti, ha come sperato un epilogo differente, affiancandolo a quello storico. La possibile liberazione di Moro sta forse a significare non solo un non prestare fede alla dichiarata guerra allo stato, come sostenuto dalle brigate rosse, ma anche un trionfo delle ragioni dell’umanità, come di quelle politiche – che ne sarebbe stato allora della D.C. che avesse dovuto vedere il ritorno del suo Presidente? – della ragione tout court – basti pensare alle facili parole profetiche messe in bocca allo stesso Moro, secondo le quali, uccidendolo, le BR ne avrebbero fatto un martire e si sarebbero tirato addosso l’odio, anziché il consenso popolare. La scritta murale che si vede nel film – Si crepa per l’eroina, si crepa nel lavoro, che cosa c’importa se crepa anche Moro? – non era certo indice di consenso per le Br, bensì era il termometro di un’estraneità sociale, di una disillusione politico ideologica. Centrale, nell’economia del film, la presenza esterna della figura del collega di lavoro di Chiara; un bel pretesto, una metafora, con il suo manoscritto che dà il titolo al film – che non avrebbe saputo meglio esprimere il lacerante contrasto della vicenda – introdotta da Bellocchio forse per affermare l’esistenza, allora, di altre presenze esterne: una sorta di bilanciamento, di compensazione a stimolare la coscienza buona in lotta con quella cattiva e che ha dato luogo al doppio finale.
Enzo Vignoli
30 settembre 2003.
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