Era mio padre

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Un film di Sam Mendes. Con Tom Hanks, Tyler Hoechlin, Paul Newman, Jude Law, Daniel Craig.
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Titolo originale Road to Perdition. Drammatico, durata 119 min. - USA 2002. - 20th Century Fox Italia uscita venerdì 13 dicembre 2002. MYMONETRO Era mio padre * * * - - valutazione media: 3,26 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un Hanks da Oscar in una vicenda strappalacrime. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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lunedì 2 ottobre 2017

 

ERA MIO PADRE (USA, 2002) diretto da SAM MENDES. Interpretato da TOM HANKS, JUDE LAW, DANIEL CRAIG, PAUL NEWMAN, STANLEY TUCCI, TYLER HOECHLIN, JENNIFER JASON LEIGH

Michael Sullivan è un uomo apparentemente irreprensibile, sposato con Annie, dalla quale ha avuto i due gemelli Peter e Michael jr. Ma in realtà, dietro questa patina ma non certo a discapito della sua lealtà di uomo d’onore, Michael è un sicario irlandese che lavora per i Rooney, famiglia mafiosa che fa capo al padre John, cui il suo più efficiente dipendente deve tutto, compresa la casa in cui vive coi suoi famigliari, e al figlio di questi Connor, ladro e squilibrata testa calda con la mania dell’aggressività incontrollabile. Ma il giovane Mike jr. sa cos’è accaduto in quel capannone in quel rigido inverno del 1931: Phil McGowern, col quale i Rooney avevano un vecchio conto in sospeso da saldare, viene improvvisamente assassinato da Connor, senza l’approvazione di Michael Sullivan Sr. né di quella del padre John. Siccome Connor sa che Mike jr. ha assistito all’omicidio brutale e, convinto che il ragazzino non sia capace di tener la bocca chiusa, s’infiltra di soppiatto nella casa dei Sullivan, ma per sbaglio uccide Annie e Peter. Sconvolto per la perdita della moglie e di uno dei figli, Michael sa che non può far altro che partire immediatamente, non avendo più nemmeno una residenza in cui rifugiarsi, per una disperata fuga per tutta la nazione e sa soprattutto che, da questo momento, il suo unico amico e collaboratore non può essere altri che il figlio Mike. Gli insegna dunque a guidare l’automobile e lo mette ormai al corrente del suo vero mestiere, di cui il ragazzino era stato a lungo all’oscuro ma del quale già cominciava a subodorare qualcosa. Michael porta con sé il figlio a Chicago nella speranza che un certo Frank Nettey possa aiutarlo: ma, scoperto che l’uomo sta dalla parte dei Connor (ormai nemici dichiarati dei Sullivan) e, nonostante i suoi modi garbati, ottiene un rifiuto. Sempre con l’aiuto incondizionatamente fedele del figlio dodicenne, a Michael non resta che derubare dalle banche di Stato degli USA tutto il denaro sporco che vi hanno versato Al Capone e soci tempo prima. Purtroppo per i due, sulle loro tracce si mette pure Andy Maguire, giornalista di cronaca nera che lavora per varie testate, tanto abile nel fotografare cadaveri quanto nel maneggiare la pistola, segretamente assoldato dai Rooney per eliminare Michael. Il primo scontro fra Sullivan padre e Maguire avviene in un motel in cui il protagonista e il figlio decidono, una volta tanto, di trascorrere la notte: il primo viene ferito ad una spalla, il secondo ad un occhio. Medicato da una gentile famiglia di contadini, Michael si riprende ben presto e può ricominciare la sua fuga. In una chiesa incontra, non certo per caso, il vecchio John Rooney, e lo mette al corrente del suo piano di togliere di mezzo quel bastardo impulsivo di Connor. Il primo a pagare le spese di tutti questi spargimenti di sangue è l’anziano John, cui Michael sr. uccide prima tutti i collaboratori. Poi, grazie ad un’inattesa quanto fortunata soffiata di Frank Nettey (al quale Connor non è mai stato veramente simpatico), Michael ottiene il numero della stanza d’hotel in cui Connor alloggia, lo trova e lo fredda mentre questi è in una vasca da bagno. A questo punto, saldati tutti i conti coi vecchi e feroci avversari, per i Sullivan le traversie sembrano terminate. Michael padre porta il figlio nella fattoria sul mare della cognata Sarah, ma l’unica persona con cui non ha ancora terminato un discorso cominciato in precedenza è l’implacabile reporter Maguire, che lo colpisce due volte alla schiena, ma Michael, prima di spirare sotto gli occhi disperati del figlioletto, gli restituisce il favore. L’unico a non essere stato ammazzato, alla fine di questa perentoria carneficina, è il giovane Mike, che da quel diabolico giorno giura di non afferrare mai più una pistola e, a chiunque gli chieda se Michael Sullivan sr. fosse un poco di buono o una brava persona, lui risponde con spiazzante sincerità: «Era mio padre». La storia si svolge nell’arco di sei sole settimane, e il suo protagonista, un Tom Hanks con barba e baffi insolitamente doppiato da Fabrizio Pucci (ma la sua voce profonda e calda è comunque efficace), dopo Philadelphia e Forrest Gump, avrebbe meritato un terzo Oscar, per come interpreta con straordinario realismo un capofamiglia che è sì un omicida (quasi) imbattibile che manda all’altro mondo le sue vittime a sangue freddo e senza emozioni, ma rimane pur sempre un padre affettuoso che protegge il figlio dal principio alla conclusione di una vicenda in cui si accumulano tanto i morti ammazzati quanto la commozione per un film che potrebbe apparire crudele e sanguinario, ma è più verosimilmente il calvario di un uomo fuori dal comune che fugge continuamente per necessità e a cui sta a cuore il bene della sua famiglia più di ogni altra cosa o valore, compreso il suo ignobile mestiere: una storia di un padre e di un figlio come se ne sono viste pochissime in più di centovent’anni di cinema, tanto è profonda e significativa. Ma anche il resto del cast non è da meno: abbiamo un P. Newman meno antagonista di quel che sembra, in quanto è anch’egli un genitore esemplare che non vuole del tutto che il figlio scapestrato segua le sue orme, insieme ad un D. Craig che è lui il vero cattivo inconfondibile di una trama avvincente quanto commovente, un figlio che ruba i soldi al padre e non sa trattenersi dall’istinto di risolvere ogni contesa con le più spietate forme di violenza. J. Law, che compare nella seconda metà del film e ha un’interpretazione che dura meno di mezz’ora, è comunque un personaggio importante, un giornalista-killer che insegue il profumo del denaro insanguinato ed esegue ordini mortiferi come un cane addestrato a graffiare e mordere più forte che può. S. Tucci, personaggio ambiguo ma più positivo di quanto suggeriscano le apparenze, fa sotto le righe la parte di un misterioso uomo d’affari con la sua abituale recitazione misurata che già allora costituiva il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Bravissimo, inoltre, il giovane Hoechlin: non solo se la cava con garbo nelle vesti del figlio che scopre il burrascoso passato del genitore pur restandogli fedele anche oltre la sua dipartita, ma immette nella sua prova recitativa un acume e un impegno ai quali va dato merito per come vengono fusi con cordiale amabilità. I critici che l’hanno paragonato a Il padrino, definendolo addirittura più cupo, hanno due torti giganteschi: qui la violenza e la vendetta non son mai fini a sé stesse, e il gusto sadico dell’efferatezza non v’è per nulla, come invece accade sia nel romanzo di Mario Puzo sia nella trilogia cinematografica di Coppola. Un’ottima ambientazione che fa tornare indietro nel tempo, con gli abiti tipici dell’epoca e le vecchie Ford che svolgono comunque un ruolo determinante nei viaggi fatidici e spasmodici che coinvolgono tutti i caratteri da un versante all’altro dello sterminato, e crudele, Paese. Ma quest’opera è tutt’altro che crudele: ha in sé il crisma ineliminabile dell’affetto, della passione genitoriale, della fedeltà ad ogni costo e contro ogni pregiudizio e dell’amore che si deve provare malgrado i disguidi, i contrattempi, le ingiustizie, le violenze e le morti in un climax ascendente che costituisce poi la parabola della vita per chiunque si scelga il mestiere del criminale. Come sostiene del resto P. Newman durante il dialogo con Hanks nei sotterranei della chiesa, nessun delinquente può meritarsi il paradiso. L’innocenza è pertanto un dono e un premio da difendere contro chiunque tenti di sottrarcelo, ma se anche una persona cara spara e ammazza per lavoro seppure per mantenere un nucleo famigliare e mandare avanti una vita dignitosa, questa fantastica pellicola insegna con immensa saggezza che non bisogna dimenticarla, né giudicarla e nemmeno giustificarla. Soltanto, provare un trasporto affettivo senza veli nei suoi riguardi. Oscar per la fotografia al veterano Conrad L. Hall, nato nel 1926 e morto poco dopo l’uscita nelle sale di Road to Perdition. Questo film è e rimarrà sempre una pietra miliare del cinema statunitense degli anni 2000, e il merito va specialmente all’ancora non citato regista S. Mendes, inglese di nascita, che si è reso capace di raccontare una vicenda di uccisioni, sangue, inseguimenti e rese dei conti pur mantenendo le sfumature sentimentali che, malgrado una regia a tratti manieristica, lo riabilitano a pieno titolo come un elogio ad apprezzare chi fa del male desiderando però al contempo il bene di chi bene gli vuole.

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