Irene Bignardi
La Repubblica
Da morire è una delle commedie nere più riuscite, brillanti e forti degli ultimi anni, un piccolo futuro classico, che satireggia al vetriolo la cultura dell’apparire, le debolezze della civiltà dello spettacolo, l’ambizione dell’esistere sul piccolo schermo. Irresistibilmente divertente, mordacemente cattivo, brillantemente smaltato.
Siccome è tendenza dei festival snobbare le commedie, a meno che non si tratti del divino Woody Allen, anche Da morire è stato presentato al Festival di Cannes 1995, da cui proviene, in una proiezione speciale. Meritava certamente il concorso e sicuramente un premio, in una gamma che va da quello per la regia - il film è di precisione cronometrica - a quello per la migliore attrice. Perché Nicole Kidman, la bella bambola bionda moglie di Tom Cruise, sfodera nel film le unghie, la grinta e l’autoironia di un’attrice di classe, chiamata, non a caso, da Jane Campion a interpretare il ruolo di Isabel Archer, nel jamesiano Ritratto di signora girato in Italia.
Da morire è anche il ritorno alla piena forma del regista di Drugstore Cowboy e di Belli e dannati, franato miseramente con il successivo Cowgirl - Il nuovo sesso. Viene il sospetto che sia proprio vero quello che ha sempre sostenuto un grande del cinema come Billy Wilder, e cioè che è difficile, ma possibile, riuscire a fare un brutto film da una buona sceneggiatura mentre è quasi sicuro che è impossibile fare un buon film da una sceneggiatura scadente.
Costruito su un romanzo di Joyce Maynard con un brillante copione tutto incastri, ritagli, piani diversi, scritto da Buck Henry, Da morire è una satira feroce e perfettamente ritmata sull’ambizione. Nicole Kidman - che con i capelli lisci e l’affettazione middle class richiesta dal suo personaggio è imbarazzantemente simile a Meg Ryan, salvo un tocco di follia in più - è una giovane donna ossessionata dal desiderio di diventare una star televisiva. Ma ahimè (si fa per dire) è sposata con Matt Dillon, che è un bravo ragazzo di origine italiana e vorrebbe solo una vita normale, non un’invasata che pensa esclusivamente al suo programmino - presenta le previsioni del tempo in una tv locale - e ai suoi sogni di gloria.
Nicole Kidman ha uno spirito da dark lady, anche se preferisce vestirsi in maniera impossibile nei colori dei gelati cari alle casalinghe americane. James Cain insegna: c’è sempre un altro uomo debole e innamorato pronto a cascarci e a fare da carnefice. E Nicole non ha certo difficoltà a sedurre un giovane stalloncino un po’ tonto - Joaquin Phoenix, fratello dello scomparso River Phoenix - e ad armargli la mano, ottenendo il risultato perverso di essere per un po’ protagonista di quella televisione che tanto ama e su cui teorizza come neanche Marshall McLuhan.
Che aggiungere? Il copione è pieno di invenzioni e battute brillanti, la satira va perfettamente a segno, gli attori sono tutti intonati, l’incastro dei tempi e dei media - dalla televisione alla realtà del cinema - è perfetto. E il nuovo Van Sant della commedia nera non fa rimpiangere per un attimo quello del cinema d’arte, ma dimostra che si può fare cinema di altissima qualità con un altissimo tasso di divertimento.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996