Irene Bignardi
La Repubblica
Gli americani, almeno a giudicare da A proposito di Henry, l’ultimo film di un regista-autore un tempo brillantemente cinico come Mike Nichols, devono sentire come profondamente insicuro il sogno americano, e continuano a esorcizzarne la fragilità, ad arpeggiare sulla labilità del confine tra vita protetta e disastro.
Peccato che Mike Nichols, dirigendo A proposito di Henry, abbia puntato a farne una favola morale, il suo personale Falò delle vanità, un atto di contrizione per il fatto che quando si ha tutto - come, appunto, prevede l’American Dream - non ce ne si accorge, e ci si comporta da ingrati. Ma il discorso finisce poi per rovesciarsi e per riscoprire la retorica: la tempra umana si misura nelle avversità. You can get it if you really want, ce la fai se vuoi veramente, come cantava una celebre canzone reggae di The Harder They Come (lì, veramente, si parlava d altro). Peccato, dicevo, perché il film è involontariamente comico.
Henry (Harrison Ford) è dunque un principe del foro di grande successo, sbrigativo con la moglie, glaciale con la figlioletta (a cui predica una rancida etica del lavoro avanti a tutto), odioso con la segretaria, arrogante con i dipendenti, bravissimo in tribunale: soprattutto a manovrare i documenti in modo tale da far vincere i suoi clienti anche contro ogni principio di giustizia.
Ma un’altra giustizia, più o meno divina, sotto forma della pallottola che un balordo gli scarica addosso in modo del tutto casuale mentre il nostro se ne sta andando a comprare le sigarette, ne fa un uomo nuovo.
Colpito al cervello, afflitto da un’amnesia totale, anche (per fortuna) del suo stesso modo di essere e di comportarsi, costretto a reimparare tutto, dalla parola ai movimenti agli affetti, divenuto un peso per gli altri, Henry, anche perché degli altri ha bisogno e non si può più permettere di restare l’orribile creatura che era, diventa un essere migliore.
Ritroverà la devota moglie (Annette Bening, la nuova, rassicurante Doris Day degli americani in difficoltà), la figlioletta (che, insegnandogli a leggere, riscopre con lui un nuovo rapporto), l’amicizia (il fisioterapista nero che gli dà qualche lezione di vita e di stile). Soprattutto, riscoprirà se stesso: quel se stesso che aveva seppellito sotto il doppiopetto dello yuppie (e sotto la paura di ricadere nel nulla che attanaglia la upper middle class americana), al punto di scegliere di vivere fuori dal sistema che pure, oh-torto collo, lo integrerebbe di nuovo. Riscoprirà, insomma, di quali perfidie e di quante falsità si nutra il benessere americano.
Conclusione in stile mélo con un happy ending che - se n’è accorto Mike Nichols? - sembra la fuga in extremis dalla chiesa dove, in Il laureato, la bella Katharine Ross starebbe per convolare a ingiuste nozze se non arrivasse a salvarla Dustin Hoffman. Babbo, mamma, bambina e cucciolo (sì, l’ex cattivone ha anche comprato un cagnolino per la sua cara piccina) si abbracciano in campo lungo dopo che la creatura è stata liberata da una scuola d’élite in cui le insegnavano a essere competitiva (!): è il gran rifiuto.
A proposito di Henry sarebbe un film comico, se solo riuscisse a divertire di più. Resta invece una storiella imbarazzante e ipocrita, un mezzo falò di verità vere, che sta all’amara critica sociale delle commedie degli anni d’oro di Nichols come la prosa di “Cosmopolitan” sta a quella di Saul Bellow.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996