Roberto Nepoti
La Repubblica
Emmanuelle Béart torna a incarnare la bellezza muliebre per la cinepresa di Jacques Rivette: una bellezza contemplata in tutta la sua maturità e carnalità, ma anche idealizzata dal regista al punto da rappresentarla sotto forma di mito. Marie e Julien, che un giorno avrebbero potuto amarsi, si ritrovano dopo più di un anno.
Mentre il personaggio femminile prende possesso della grande casa fatiscente dell'uomo (inclusa una camera il cui accesso è proibito a Julien), l'attrice occupa interamente lo schermo con la sua personalità palpitante, il fascino magnetico delle sue forme, le emozioni primarie che provoca in chi la guarda. Nell'abbandono estatico delle scene erotiche il tempo rimane sospeso: vedi l'esplicita metafora di Julien che, orologiaio di mestiere, arresta le pendole. Poi la donna sparisce misteriosamente, come misteriosamente è arrivata.
Racconto di fantasmi (veri?) e di falsi-vivi, esercitazione sui miti dell'"amour fou" e dell'eterno ritorno, Storia di Marie e Julien fa convivere la fascinazione dell'arcano con un intellettualismo intransigente, che ricorre a citazioni colte: da Jean Cocteau a Edgar Allan Poe (il gatto del padrone di casa si chiama Nevermore, leit-motiv del poema "Il corvo").
Lo spettatore in cerca di un semplice divertimento potrebbe, alla lunga, trovarlo faticoso; ma chi gradisce i sublimi tormenti dell'amore cerebrale e liturgico, sensuale e un po' sadico, non ha che da accomodarsi.
Da la Repubblica, 17 settembre 2004
di Roberto Nepoti, 17 settembre 2004