BIN-JIP. FERRO 3 – LA CASA VUOTA
Tutte le case sono vuote. Per lo meno tutte quelle in cui penetra – come un amante furtivo – il protagonista del film, un cavaliere errante che viaggia a cavalcioni di una moto. Egli lascia nei pomelli delle porte d’ingresso degli avvisi pubblicitari. Se questi volantini non verranno tolti, la via è libera. Vi entra non per violarle, al contrario sembra compiere un atto di misericordia, se non proprio d’amore per dei contenitori abbandonati, lasciati soli a se stessi: ascolta i messaggi lasciati nelle segreterie telefoniche, lava a mano i suoi indumenti e anche quelli altrui, inumidisce le piante con un vaporizzatore, sistema i guasti di piccoli utensili domestici, si prepara da mangiare con quel po’ che trova nei frigoriferi, fotografa se stesso con altre foto o immagini che trova negli ambienti in cui s’introduce, dorme, riassetta e il giorno dopo se ne va senza essersi appropriato di nulla, senza lasciare alcuna traccia di sé.
Le case sono vuote in quanto specchio di solitudini. Quando lui vi accede, dà momentaneamente una vita alle dimore che ritorneranno nella loro vuota inutilità nel momento in cui ne esce. La sua discrezione diventa un esercizio d’invisibilità per gli occhi di chi si limita ad abitare solo saltuariamente in quegli alloggi, senza viverli veramente.
Quando Tae-suk (Lee Seung-yeon) entra nella casa di Sun-hwa (Jae Hee), è lei ad essergli invisibile, lei cioè non esiste, non c’è. Non c’è per il marito che la cerca per telefono; non c’è per se stessa perché non parla, non sapendo a chi rivolgersi e vorrebbe non sentire le parole di violenza e non d’amore dell’uomo. Il marito vive di status symbol: ad esempio possiede un’automobile tedesca il cui prestigio può non essere ancora stato eguagliato dalle macchine asiatiche. La motocicletta di lui è della stessa marca, ma in questo caso parrebbe essere sottolineata la provenienza da un mondo lontano, estraneo a quello in cui egli vive.
Abbiamo qui l’incontro fra due solitudini. Un uomo e una donna invisibili al mondo, che diventano visibili l’uno per l’altra. Lui è libero perché rifiuta la solitudine dell’uomo: non ha una casa, non ha un lavoro, non ha stereotipi e tenta di valorizzare quanto l’uomo possiede inutilmente. Lei è invece prigioniera della sua solitudine, impostale dalla vita, è prigioniera all’interno dell’edificio in cui vive, da cui non può evadere perché ivi segregata dal marito. Tae-suk libera Sun-hwa e insieme i due tentano di dare vita a ciò che non esiste. Quest’uomo e questa donna non rispondono ai canoni morali contemporanei, vivono cioè non per gli altri, non in base a quello che gli altri pensano, in sostanza non vivono per il mondo.
Il poliziotto che li arresta chiederà loro conto di cose che, in effetti, non hanno compiuto: a partire dall’omicidio dell’uomo morto in solitudine di tumore, a cui loro hanno dato una sepoltura accurata e umana; di furti – si sono infatti momentaneamente appropriati di qualcosa che non esiste: queste case prive di persone che le abitino, prive d’amore e di capacità di vivere, sembrano il simbolo della società post consumistica, oggetti posseduti per il puro bisogno di possesso senza che di esse si faccia un uso concreto. L’unica colpa di cui l’organizzazione sociale dei nostri giorni potrebbe far loro carico è quella di violazione di domicilio: ma, come abbiamo visto, le case non sono un vero domicilio.
Nel film viene usata un’arma micidiale: si tratta di palle da golf con le quali lui colpisce ripetutamente il marito di Sun-hwa. Poi continua – forse volendo esercitarsi - a batterle con la mazza ( da qui il ferro 3 del titolo), dopo averci passato attraverso un filo di ferro che circonda un tronco d’albero. Lei vuole impedirgli il gioco, ma lui prosegue e colpirà involontariamente una donna all’interno di un’automobile, dopo che il filo che tiene ferma la pallina si sarà spezzato. Abbiamo interpretato questa scena come un invito ad abbandonare ogni forma di difesa/offesa, come la dimostrazione che l’unico modo per difendersi da questo mondo è quello di farsi incorporei, di sparire.
Il film è di una bellezza plastica che risalta dalla espressività di immagini raramente sottolineate da parole. Ma in esso non c’è il silenzio del documentario estatico, bensì la mancanza di linguaggio come forma di resistenza al dolore, di opposizione alla violenza, come causa dell’assenza d’amore. Infatti lei pronuncerà le sue prime ed uniche parole nella sublime scena finale in cui, mentre è abbracciata dal marito, bacia lui - invisibile alle spalle dell’altro - al quale avrà diretto il suo ti amo. Tae Suk, invece, non dirà nemmeno quelle due parole: egli è infatti un puro spirito e non un fantasma; vivrà solo per la donna e non potrà manifestarsi agli altri in nessun modo.
Anche per poter amare liberamente è necessario, quindi, liberarsi dal mondo, cioè rendersi invisibili ai suoi occhi.
Ci è parsa degna di grande nota questa ennesima, ma affatto originale, metafora dell’amore, vincitrice del Leone d’argento alla 61^ edizione del festival del cinema di Venezia. Continuiamo ad apprezzare sempre più le doti del regista coreano Kim Ki-duk, che abbiamo ammirato recentemente in Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2004)e che avevamo, forse distrattamente, sottovalutato nel film L’isola (2000), presentato – anch’esso – al festival del cinema di Venezia.
Enzo Vignoli,
16 dicembre 2004.
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