Salvate il soldato Ryan

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Un film di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Tom Sizemore, Edward Burns, Matt Damon, Barry Pepper.
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Titolo originale Saving Private Ryan. Guerra, Ratings: Kids+16, durata 167 min. - USA 1998. - UIP - United International Pictures uscita venerdì 30 ottobre 1998. MYMONETRO Salvate il soldato Ryan * * * 1/2 - valutazione media: 3,89 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un pò di cuore e un pò di cervello Valutazione 3 stelle su cinque

di johngarfield


Feedback: 1350 | altri commenti e recensioni di johngarfield
mercoledì 14 settembre 2011

 

I film di guerra, in generale, tendono ad amplificare al massimo gli effetti visivi propri del genere e passare in secondo piano l’elemento psicologico, lo studio dei personaggi, privilegiando tipologie scarne, approssimative, proprio per dare il massimo risalto all’azione bellica.

In certi casi, i migliori, assistiamo però a un equilibrio convincente tra questi due piani. I protagonisti sono spesso descritti con accuratezza e le azioni intraprese sono frutto di decisioni sofferte, spesso coraggiose, a volte temerarie. L’aspetto psicologico è fondamentale per dare spessore alla caratura del protagonista: le sue debolezze, le sue certezze, le sue qualità e i suoi difetti aiutano a capire le sue decisioni e danno credibilità al film.

La cinematografia americana è piena zeppa di esempi di film bellici in cui lo scopo principale è la propaganda del buon soldato americano invincibile ed onesto. Nella filmografia anni 40 e 50 l’impegno bellico era giustificato da ragioni morali (la reazione giusta al proditorio attacco a Pearl Harbor, la guerra giusta contro l’Asse malvagio, la minaccia comunista, ecc.) e il pubblico era accontentato con facili prodotti di consumo e incoraggiato con chiari e a volte sfumati richiami all’impegno sul Fronte Interno per sostenere i propri ragazzi.

Poi, dopo la sbornia retorica, il cinema cominciò a ragionare un  po’ di più e a sfornare prodotti sempre meno propagandistici e sempre più critici. L’esempio di APOCALYPSE NOW è cruciale. Il soldato americano non era più il bravo, onesto, bello ed invincibile G.I che lottava per un mondo più giusto, ma spesso diventava una creatura cinica e perversa. Oppure, la guerra era rappresentata in modo crudo, realistico, senza distinzioni fra buoni e cattivi.

Nel caso in esame, (si tratta di una storia vera, anche se i nomi sono stati cambiati), il protagonista è un ufficiale di complemento, appartenente ai Rangers (notoriamente unità chiamate a svolgere compiti di particolare difficoltà), che nella vita civile è professore di letteratura. Gli tocca, dopo essere scampato a stento al carnaio della spiaggia normanna denominata Omaha nel corso del D-Day, una missione umanitaria: trovare l’ultimo dei fratelli Ryan, dopo che questi sono stati uccisi in combattimento. Questo tipo particolare di missione, in teoria non bellica, si risolve tragicamente, ma positivamente per il fratello sopravvissuto.

La scelta di affrontare la storia partendo dai ricordi dell’ultimo dei fratelli Ryan, tornato dopo decenni a Omaha Beach davanti alla tomba del capitano Miller, si rivela, a mio avviso, efficace sia dal punto di vista emotivo sia da quello narrativo. Il primo rilievo che mi sento di fare, a questo proposito, è lo scarto del punto di vista del protagonista e cioè di Ryan, che non si trovava con Miller a Omaha e quindi non poteva vedere quel che succedeva al secondo battaglione Rangers e tutto ciò che ne seguiva fino al momento dell’incontro fra Miller e Ryan nel villaggio francese (Ramelle) che sarebbe stato teatro della battaglia  e che sarebbe costato la vita al capitano.

Altri rilievi riguardano errori gravi come quello del campanile di Ramelle (era uno dei primi bersagli delle artiglierie: mai sarebbe stato risparmiato), dell’uso dei Tigre (questi tanks non furono usati in Normandia che contro gli inglesi, lontano da Ramelle), la Panzer Division SS “Das Reich” non fu impiegata in Normandia che a fine giugno 1944 e altri.

Ma non è questo che conta, in realtà. Quello che veramente importa è la valutazione globale. Ma credo che per arrivare a questa occorra parlare soprattutto di episodi. Io trovo che ci sono almeno due momenti in questo film che potremmo chiamare cinema vero, autentico. Il primo non è quello dello sbarco. E’ vero che si tratta di una delle scene più realistiche e magistralmente dirette di sempre, ma si tratta di abilità, di cura della perfezione. Quella che mi sembra invece far parte del “cinema immortale” è la scena in cui la madre dei tre fratelli riceve la visita da parte del militare e del prete per annunciarle la morte di tre dei suoi quattro figli in guerra. E’ una scena che solo un grande regista può realizzare: tutto è girato in una sola sequenza. La mdp che filma la madre di spalle, in cucina, e inquadra la finestra oltre la quale si vede una campagna verde e una strada. Un’automobile scura sopraggiunge e si arresta di fronte alla casa. La madre vede l’auto, esce dalla cucina e si avvia verso l’uscita. Quando vede scendere dall’auto il prete, la donna si arresta e poi si siede sul gradino interno, senza aver ancora aperto la porta. Ella ha capito. Noi abbiamo capito. Nessuno dice nulla, nessuna scenata, nessuna lacrima. Eppure sentiamo la tragedia che si abbatte su quella povera donna in tutto il suo ferale fragore. Questo è cinema a tutto tondo, signori!

Il secondo momento che è per me indimenticabile è a Ramelle. Il manipolo di soldati si appresta a cercare di contrastare il passaggio di unità nemiche ed impedire loro di congiungersi con il grosso dell’esercito che cerca di arrestare l’avanzata alleata.

Regna una calma quasi irreale. Si odono le note di una nota canzone di Edith Piaf. L’attesa viene ingannata in vari modi. Ryan racconta addirittura divertito un episodio avvenuto anni prima con i suoi fratelli. Ryan lo ascolta, prima serio, poi anch’egli contagiato dal candore di Ryan, accenna un sorriso. Il soldato che fa da interprete traduce parola per parola la canzone. Sembra quasi una normale scena di retrovia, dove la noia per l’inazione contagia un po’ tutti e il pensiero corre sempre alla vita da civili.

Poi, all’improvviso, comincia ad udirsi, in lontananza, il sinistro suono di tanks che si avvicinano. La dura realtà della guerra irrompe ed interrompe un’oasi falsa di tranquillità. L’attesa è spasmodica, i nostri occhi sono puntati verso l’imbocco della strada da cui, da un momento all’altro, spunteranno blindati, carri armati e fanteria decisi a tutto per attraversare il ponte. La sequenza indugia molto su quest’attesa e questo la rende ancora più febbrile e credibile. Il contrasto tra vita (racconti di gioventù, canzoni, giochi ecc.) e morte (l’arrivo delle macchine da guerra) è magistralmente rappresentato.

Si può discutere su tutto, accusare il regista dei soliti cliché filo-americani, di avere fatto del manicheismo d’accatto, di avere compiuto tanti errori. A me pare che l’ideologia non dovrebbe mai condizionare l’esame critico di un’opera, sia essa un film, o un saggio storico o un romanzo. Tanto più che in questo film non ci sono né buoni né cattivi, se escludiamo il personaggio di Tom Hanks. Per il resto, gli americani non sono né belli, né bravi. Sono semplicemente soldati che vincono, perché la storia dice che hanno vinto loro. Pure tra loro ci sono vigliacchi, sbruffoni, fanatici e sempliciotti. Ma come in tutti gli eserciti ci sono anche piccoli e grandi eroi, magari quotidiani, magari sconosciuti, ma pur sempre eroi. La storia la scrivono i vinti, è vero ed è anche vero, come scriveva Eschilo circa tremila anni fa, che “in guerra, la prima vittima è la verità”; ma al di là delle azioni belliche, degli effetti speciali, del finale da “arrivano i nostri” che rovina un po’ l’incanto, resta l’impressione di trovarci di fronte a qualcosa di definitivo, a un equilibrio quasi magico fra ragioni di spettacolo e ragioni di “cervello”. Credo che ci sia qualcosa di più di una semplice operazione commerciale di successo. Credo che ci sia una certa porzione di cuore e di cervello che sarebbe ingiusto non tenere in considerazione. Al di là dell’ideologia e della facile liquidazione di tutto ciò che a priori non piace.

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