James Bond, tradito dalla donna che amava, è comunque determinato a trovare i responsabili della sua morte. La ricerca e la sua determinazione lo portano all'organizzazione criminale chiamata "Quantum" e alla società di Dominique Greene, un ambientalista che usa ricchezza e potere per aiutare un paese a rovesciare il proprio governo in cambio di una parte di desolate terre desertiche che gli permettano di controllare la fornitura idrica dell'intero territorio. Obbligato a lavorare senza l'aiuto dell' MI6, Bond si allea a Camille, una giovane donna alla ricerca della propria giustizia. Insieme cominciano un viaggio per il mondo con lo scopo di fermare Greene.
La prova del nove anche per un mito: dopo la rinascita di Casino Royale è ora di rimpastare il personaggio sfruttando la contemporaneità e mettendo da parte le debolezze sedimentate in 40 anni, è il momento per i produttori Michael Wilson e Barbara Broccoli di testare la solidità del progetto e del suo nuovo frontman, Daniel Craig, in vista dell’annunciata tetralogia con cui si rigenererà la nuova serie. Si conferma il team di scrittura, si dà la regia a Marc Forster – di sicuro non un regista di thriller d’azione – e si cerca di provare a reinserire il mito nell’onda di una saga, pur sempre rinnovata. Ne esce un film stringato e sicuro, forse transitorio, ma puro Bond degli anni Duemila. Script degli sceneggiatori ufficiali Neal Purvis e Robert Wade, affiancati come nello scorso film da Paul Haggis, che creano un thriller spionistico dallo stampo classico, ma ravvivato dalle infiltrazioni moderne ormai necessarie, più ricco d’azione del precedente e pieno di rimandi alla tradizione bondiana (uno su tutti, la ragazza coperta da petrolio anziché d’oro), ma anche cosparso di un’ombra scura, tesa a velare i personaggi. Dominato dalla sabbia come elemento predominante (e lo si vede fin dai bellissimi titoli di testa vintage, a opera di MK12), il film oltre all’introspezione psicologica sui temi della vendetta, alle reazioni personali e alla descrizione di un Bond grezzo e duro, un assassino puro senza alcuno scrupolo né criterio tattico, racconta anche – a suo modo – del mondo d’oggi, combinando elementi politici classici (l’America che aiuta le dittature) e moderni (siccità e surriscaldamento globale), mettendo in campo i governi e le loro dirette responsabilità. E fin dal prologo a tutta velocità, il film si pone secco, stringato, senza fronzoli, con una struttura e un impianto tutto sommato classici – come nelle simpatiche didascalie – a dimostrare che il mito può ancora durare dopo il rinnovamento: e una serie di marchi di fabbrica inconfondibili eppure rinnovati, come il logo che appare solo alla fine, la confezione invidiabile (memorabile la corsa a piedi per Siena o l’allestimento della Tosca), la collezione femminile cui Bond dà un peso diverso. Film che avvince, magari non travolgente come il precedente, ma convincente (e i fan sentono la mancanza di Q).
La sceneggiatura mostra chiaramente i correttivi di Haggis, calibra bene i temi ma meno l’intreccio, mescola la classica avventura bondiana con i toni nuovi, accelera nell’azione per poi chiudersi in piccoli crepuscoli (come nel finale), usa il cattivo e l’intreccio come pretesti, fa intuire una ventina di minuti di intrigo tagliati in produzione e costruisce una Bond girl superficiale, ma sa farsi tenere in pugno dalla regia di Forster, tesa e nervosa, coerente con l’impianto, aiutata da un montaggio furioso (di Matt Chessé e Richard Pearson), da scenografie incredibili (di Dennis Gassner) e da qualche idea interessante. Craig si conferma tosto, duro, implacabile, un Bond feroce in linea coi tempi; la Kurylenko mostra la bellezza e Gemma Arterton nemmeno quella, Amalric è un po’ sprecato mentre Giancarlo Giannini e Judi Dench sono perfetti comprimari. Le basi per un nuovo e vero ciclo sono state poste, e tra pregi e difetti la transizione è in atto. Si spera che Wilson e Broccoli sappiano sfruttare al meglio tutto ciò.
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