teresa lavanga filmup
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domenica 1 marzo 2009
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non giocano col pallone, si allenano a tirar sassi
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Lettere dalla Palestina
La fondazione "Cinema nel presente", ideata da Francesco Maselli nasce in contrapposizione alla cultura mercantile che si sta diffondendo nel mondo. Il lavoro della fondazione inizia nel 2001, in seguito ai tragici avvenimenti di Genova. In nome di questa iniziativa sono stati realizzati finora ben 11 documentari, alcuni già distribuiti in sala, altri distribuiti in VHS, altri ancora in fase di montaggio. Quasi tutte le realizzazioni sono dei lavori collettivi, anche se vi sono prodotti individuali, come ad esempio "Carlo Giuliani, ragazzo" di Francesca Comencini.
Questo documentario si aggiunge agli altri girati dai vari registi che aderiscono alla fondazione negli ultimi due anni.
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Lettere dalla Palestina
La fondazione "Cinema nel presente", ideata da Francesco Maselli nasce in contrapposizione alla cultura mercantile che si sta diffondendo nel mondo. Il lavoro della fondazione inizia nel 2001, in seguito ai tragici avvenimenti di Genova. In nome di questa iniziativa sono stati realizzati finora ben 11 documentari, alcuni già distribuiti in sala, altri distribuiti in VHS, altri ancora in fase di montaggio. Quasi tutte le realizzazioni sono dei lavori collettivi, anche se vi sono prodotti individuali, come ad esempio "Carlo Giuliani, ragazzo" di Francesca Comencini.
Questo documentario si aggiunge agli altri girati dai vari registi che aderiscono alla fondazione negli ultimi due anni. Un lavoro immane, da elogiare. I vari autori si sono preoccupati di rappresentare sulla pellicola non storie romanzate, finto-drammatiche, ma storie vere, che ti colpiscono dritto al cuore. In "Lettere dalla Palestina", che verrà presentato alla Berlinale nella sezione Forum, vediamo città squassate dalle esplosioni, gente costretta a vivere alla meno peggio, bambini che giocano fra le macerie. Come non rimanere sconvolti nel vedere persone anziane, con il volto segnato dall'età e dalla tanta sofferenza, che si siedono a guardare, per ore, quella che era stata la loro casa, e che ora appartiene a qualcuno che non fa neppure caso a quanti alberi di limone ci sono in giardino, a quella colonna rotta che spunta in un angolo del patio? Come restare indifferenti di fronte ai sogni infranti di un giovane che voleva fare il pugile e che ora, a causa di una mina si ritrova senza una mano? Come non lasciarsi commuovere da bambini che hanno una maturità innaturale per la loro età, che parlano della guerra come della cosa più normale del mondo e della morte come di una compagna di vita, che non giocano con il pallone, ma si allenano a tirare sassi? E infine, come non sentirsi inutili di fronte al dolore di una madre che ha perso la figlia, prima donna kamikaze, ma che si ostina a lottare, a rivendicare i diritti del suo popolo, a sperare in un futuro migliore?
Tutto quello che questo documentario mi ha trasmesso è angoscia per il futuro di tutte quelle persone, impotenza di fronte ai tanti interessi politici e commerciali che impediscono di risolvere la questione palestinese, e soprattutto rabbia. Rabbia per i tanti milioni di vittime innocenti, rabbia per l'indifferenza di gran parte del mondo, rabbia per non essere in grado di fare nulla. Rabbia per tutte le volte che mi sono svegliata la mattina e mi sono detta: "che brutta giornata che mi aspetta", e invece lì ci sono tante persone desiderose di realizzare qualcosa di buono e utile, ma che non possono farlo perché non riescono a raggiungere il posto di lavoro o l'università a causa dei blocchi ai ceck point, ci sono ragazzi che non possono avvicinarsi l'uno all'altro perché hanno una diversa fede religiosa, ci sono anziani che vivono in situazioni mostruosamente disagiate. La quotidianità di queste persone è nettamente diversa dalla nostra, devono continuamente fare i conti con rastrellamenti, bombardamenti, carestia, controlli, blocchi, esplosioni, coprifuoco e noi che facciamo? Nulla...
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il riformista
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domenica 1 marzo 2009
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lettere dalla palestina... e quando da israele?
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Si direbbe che l'unico israeliano buono sia l'israeliano pacifista dell'associazione Ta' Aush' (significa «Vivere insieme»). Quello che, nel mezzo del deserto del Neghev, liberando palloncini colorati e gridando «Occupazione no, pace sì» sotto lo sguardo nervoso delle guardie, porta pacchi-regalo ai 300 palestinesi detenuti in un campo di prigionia. Gli altri, i cattivi, sono visti da lontano: perlopiù soldati di stanza ai check-point, pronti a sparare al primo segno di ribellione, foss'anche la rabbia per una fila. Dalla finestra di una palazzina, a un certo punto, spunta però una bella ragazza ebrea dai capelli rossi. Sta sventolando un tappeto. Almeno lei sarà buona. Ma la cinepresa, indietreggiando, mostra un'anziana donna palestinese che chiacchiera col nipotino dall'altra parte della strada.
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Si direbbe che l'unico israeliano buono sia l'israeliano pacifista dell'associazione Ta' Aush' (significa «Vivere insieme»). Quello che, nel mezzo del deserto del Neghev, liberando palloncini colorati e gridando «Occupazione no, pace sì» sotto lo sguardo nervoso delle guardie, porta pacchi-regalo ai 300 palestinesi detenuti in un campo di prigionia. Gli altri, i cattivi, sono visti da lontano: perlopiù soldati di stanza ai check-point, pronti a sparare al primo segno di ribellione, foss'anche la rabbia per una fila. Dalla finestra di una palazzina, a un certo punto, spunta però una bella ragazza ebrea dai capelli rossi. Sta sventolando un tappeto. Almeno lei sarà buona. Ma la cinepresa, indietreggiando, mostra un'anziana donna palestinese che chiacchiera col nipotino dall'altra parte della strada. Ricorda una colonna sbrecciata in giardino, una pianta di fico. Conserva ancora le chiavi di quella casa–era la sua–dalla quale tanti anni prima fu cacciata. Ecco, dunque, le radici dell'odio. Di nuovo sotto il coordinamento di Francesco Maselli, dieci dei cineasti che parteciparono ai film collettivi sul G8, volarono ai primi di giugno nelle martoriate «terre del dramma per raccontare la straordinaria vitalità culturale e intellettuale – e materiale, fisica – di quel popolo oppresso». Punto di vista chiaro, esplicito, piuttosto militante. Per la serie, «stiamo con gli oppressi contro gli oppressori». Insomma con i palestinesi contro gli israeliani.(…)Con andamento lirico-poetizzante, a tratti sicuramente toccante, Lettere dalla Palestina cuce insieme nell'arco di 60 minuti una serie di storie raccolte sul campo. E' «il piccolo quotidiano» rivendicato dagli autori, l'altra faccia della guerra. E così, quasi chiamati a recitare nel ruolo di se stessi, i testimoni documentano con sguardi e parole la propria condizione di «oppressi». Ecco il bambino che voleva fare il pugile e s'è ritrovato senza un braccio; o l'uomo disperato che, avendo perso tutta la famiglia, vende sottocosto gli oggetti della vita precedente (uno stereo, un divano, delle sedie); o il piccolo lanciatore di sassi che non teme i soldati ma solo le loro armi; o la giornalista di Al Jazeera che si fa bella prima del collegamento; o una bambina col ghiacciolo in attesa del suo spasimante in erba; o l'operaio che s'alza alle cinque di mattina per trovare lavoro e viene regolarmente bloccato al check-point; o l'attrice che celebra in teatro, dove si dà Stories Under Occupation, le virtù dell'ironia come antidoto alla disperazione del suo popolo; o la fiera nonna della giovane Wafa, che fu la prima kamikaze donna a farsi esplodere in Jaffa Street. A un certo punto si vede anche il quartiere generale di Arafat semidistrutto da un cannoneggiamento, «ma appena mezz'ora dopo le strade erano già tutto un brulicare di umanità, di bancarelle, di colori» (Scola). Come si notava, «l'emozione dei piccoli gesti quotidiani» rispecchia soltanto il devastato universo palestinese. Si dirà: Lettere dalla Palestina non è un servizio di telegiornale, non deve sforzarsi di essere oggettivo o imparziale, nasce da un punto di vista politicamente preciso, vicino alle posizioni di Rifondazione comunista. Nondimeno si vorrebbe che Maselli e i suoi bravi colleghi,(…)restituissero anche «l'altra sofferenza». Insieme allo strazio palestinese esiste anche la paura umanissima della madre ebrea che, avendo due figli, alla mattina sceglie di mandarli a scuola su autobus diversi. Non merita anche lei una «lettera»?
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