Può mai un novantenne domare cavalli selvaggi cavalcandoli, accendere di desiderio giovani procaci, far innamorare a prima vista piacenti vedove, trasformare in pochi giorni la personalità di un ragazzo cresciuto per strada in quella prossima ad un giovane educato nei migliori college? E può un muscoloso guardaspalle farsi intimorire e chiedere aiuto dopo aver ricevuto un pugno dal novantenne, perdere la pistola (!!) per l'attacco di un gallo e farsi beffare a più riprese in una caccia all'uomo tra le più sconclusionate della storia del Cinema? La verità è che in tutto c'è un limite, che è dato semplicemente dalla natura delle cose, e quando quel limite viene ripetutamente superato, la storia si tramuta in favola. Fin qui nulla di male, le favole hanno la loro suprema dignità, ma devono sapersi riconoscere come tali. "Cry Macho" invece fa il grande errore di prendersi sul serio, di narrare una vicenda umana che, nel ricercare una sua credibilità, accumula nel suo sviluppo più buchi di uno scolapasta. Il grande Clint confeziona in realtà un senescente monumento a se stesso, del tutto privo di ironia e consapevolezza, e se in "Gran Torino" il rapporto tra il vecchio e il giovane assumeva tratti talmente veri e profondi da rasentare la poesia, questa volta la narrazione sconfina del ridicolo involontario. A peggiorare la situazione contribuisce la presenza di tutti gli stereotipi: i messicani sempliciotti, gli anziani saggi che sanno sempre dire la parola giusta, la madre ricca e indifferente al figlio ovviamente dedita al sesso con chi capita. Insomma, anche i migliori possono sbagliare, l'importante è comprendere l'errore e non ripeterlo più: "Cry Macho" rimane quindi un neo e, siccome le storie personali sono più belle quando finiscono bene, questo non deve essere il canto del cigno del grande Clint.
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