Non si può parlare del cinema di De Matteo se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete dell’elemento inaspettato che irrompe improvvisamente e letalmente in agiate famiglie solide e apparentemente prive di problemi. L’elemento imperturbato che scuote, muove e amplifica le sorti degli eroi in tensione è un classico di ogni commedia drammatica che si rispetti. De Matteo ha reso questo elemento una costante della sua filmografia; in sue pellicole passate come “Gli equilibristi” e “Bella gente”, l’irruzione violenta di un elemento “irrazionale” nel tessuto della realtà borghese odierna, un qualcosa da opporre alla buona educazione e alla facciata ipocrita del mondo circostante, una forza eversiva e incontenibile, avvinghiava a sè lo spettatore trascinandolo nell’abisso di umana e quotidiana miseria.
Ne “I nostri ragazzi”, il titolo emblematico, ci lascia intendere che la “minaccia” proviene da un’altra parte, dal mondo ovattato di candida fiducia e provvida onestà: la famiglia.
E di famiglia si parla, di due famiglie diversamente borghesi con le dovute accezioni di ricchezza, del legame tra due fratelli, un chirurgo pediatrico con la giuste dose di trasandatezza (interpretato da un bravo Luigi Lo Cascio) e un rampante, elegante avvocato (Alessandro Gassman, ancor forse pià bravo nella sfaccettatura d’animo di Lo Cascio). Due fratelli diversi dal diverso modo di intendere la vita pur essendo entrambi al servizio dell’uomo, il primo nel tentativo di salvar la vita, il secondo nell’evitare condanne penali, , si incontrano a cena ogni mese in un ristorante penta-stellato con le reciproche mogli (Mezzogiorno e Bobulova, la prima ascetica e apatica nella sua cultura d’arte e di trasmissioni televisive, l’altra più amante del ricco che non nasconde interessi verso la moda d’alto stile ). I due fratelli sono accumunati dalla difficoltà di crescere, di entrare a contatto col mondo adolescenziale dei propri figli, Michele, quello del pediatra, quasi distante dietro i vetri spessi delle sue lenti e dipendente da video su youtube e Benedetta, nata da un precedente matrimonio tra l’avvocato e l’ex moglie, più trasgressiva e irrazionale.
Figli che non parlano mai con i genitori se non, come li definirebbe Serra, comunicando con “borbottii incomprensibili”, figli dell’era digitale evoluti con la specie troppo precocemente e al passo coi tempi (altro che motorini, qui si va dritto con macchine di ventimila euro), figli soli nella loro precarietà virtuale fatta di social network e like su Facebook.
Michele e Benedetta a differenza dei padri si frequentano spesso, il ragazzo in particolare sembra essere legato da un rapporto simbiotico alla fanciulla, seguendola nelle feste e nelle sue azioni, lei al tempo stesso, cieca della ricchezza paterna, lo esibisce ai suoi compagni di merende “come bestia da passeggio”.
Capita l’inaspettato, l’evento: una mendicante, nel quartiere Salaria a Roma, viene aggredita violentemente di notte da un ragazzo e di una ragazza finendo in coma. Le immagini riprese da una telecamera di sicurezza non consentono di identificare univocamente gli artefici del gesto ma la notizia fa presto a diffondersi anche sui giornali e su “Chi l’ha visto” (come se eventi di questo tipo fossero rari nelle grandi città); il tarlo del dubbio inizia a macinare nella mente della moglie del pediatra prima (tra l’altro fanatica del programma della Sciarelli) e di quella dell’avvocato dopo.
Quando ben presto, il sospetto diventa certezza, i due genitori, i due pater familias, l’avvocato e il medico forse troppo occupati nelle loro professioni per comprendere la vera natura dei figli, dovranno prendere in mano la responsabilità di un evento grave e delittuoso, accompagnando il desiderio di giustizia a un’analisi propria delle coscienze dei loro figli.
Nella pellicola di De Matteo, noi spettatori siamo posti dinanzi a un tema che conosciamo molto bene, che i giornali ci ricordano spesso: aggressioni violente a danni di persone indifese perpetrate da giovani ragazzi, molte volte di buona famiglia, senza una precisa ragione se non quella di sfogare la propria frustrazione sentimentale e il proprio ego malato su chi soffre.
Ne “I nostri ragazzi” l’evento di un trauma che apre il non detto tra adulti e figli, tra vecchi e giovani, non può che essere quasi conseguenza dell’ottusa volontà genitoriale di nascondere la testa sotto la sabbia dinanzi all’amoralità della prole, all’incapacità di comprendere il male che alberga nelle famiglie di elevata condotta morale affermate nella società ma prive di punti fermi e di riferimenti. Perchè è di riferimenti, inutile ricordarlo che il cineasta vuole parlare, scuotendo magari alcune famiglie “cieche” davanti allo schermo che alla visione della pellicola potrebbero pensare di essere lontane da quest’universo. I rifierimenti dell’onestà, del dialogo, della reciproca convivenza sono morti, affogati nel degrado morale che ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere il peso della quotidianeità. E l’idea di reprimere un sussulto vitale che si legge come voce di coscienza, col prezzolato patto del denaro, è mercificazione, è falsità, è follia quotidiana di telegiornali scandalistici.
E’ cancellazione della propria identità genitoriale che non salva anzi mafiosamente copre eventi tragici senza aver mai il coraggio di affrontarli con la dovuta punizione legale
Forse non di grande compostezza e efficacia ma ci mancava un film che malgrado la prolissità di alcune scene e la superficialità del frettoloso finale ci fa osservare, oggettivamente, una storia non troppo lontana dalla realtà dandoci del materiale con cui riflettere. Con garbo e attenzione.
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