A. Pasterius: Un commento a “La variabile umana”, di Bruno Oliviero
Sappiamo bene come le opere prime rappresentino sempre un grande problema per l’autore. Infatti l’apparizione nella realtà dell’oggetto creativo reificato porta con sé un coacervo di fattori drammaticamente contraddittori.
“Sarò apprezzato? ma soprattutto la filosofia della costruzione cinematografica sarà compresa?
Sarà un grande successo planetario !
Emergeranno nella coscienza dei fruitori i significati latenti che la pellicola contemporaneamente esprime e nasconde ?
Riuscirò a farne un altro ?
Temo un flop assoluto !
La mia poetica creativa potrà essere colta ?
Ci farò un bel po’ di soldini !
Coglieranno - critica e pubblico - le mie difficoltà e le traversie di tutti i componenti di questa squadra che, per la prima volta assieme, hanno dovuto assieme affrontare?”
Questo tipo di pensieri (“Angosce di stile” li avrebbe definiti Giorgio Manganelli) potrebbe avvicinarsi al pensato del neoregista di ogni primo film e quindi anche alle oscillazioni del mondo interno di Bruno Oliviero, autore de “La variabile umana”.
Ma, in parallelo, la visione d’un’opera prima fa insorgere anche nel fruitore una serie di problemi di responsabilità e di non facile soluzione. Bisogna guardare agli eventuali pregi o alle possibili carenze, alla realtà o alle potenzialità, all’oggi o al futuro ?
Ci vorrebbe un grande equilibrio, un equilibrio difficile da raggiungersi, che dovrebbe essere in grado di contemperare una serie di valutazioni tra di loro opposte e difficilmente conciliabili.
Ma sappiamo bene quanto sia asssolutamente chimerico rincorrere “il giudizio perfetto” !
In queste situazioni ci si può affidare unicamente ad un’attenta valutazione della risposta emotiva che la visione dell’opera prima ha attivato in noi. In altre parole, per comprendere il film si deve ricorrere (come direbbe uno psicoanalista) alla lettura e alla decodificazione del nostro “controtranfert” di spettatore.
Il metodo, di ordine assolutamente affettivo e soggettivo (ma nell’arte moderna non esiste che la soggettività) risulta corretto qualora si consideri che il cinema - non meno della realtà e del sogno - altro non è che una grande fabbrica di emozioni
Ma, più in generale e detto in altro modo, un commento ad un film è più pertinente a chi lo scrive che all’oggetto che tenta di definire.
Trangugiate queste doverose note introduttive, passiamo allo specifico di questa interessante opera prima.
“La variabile umana” è un film sostanzialmente etico e umanamente attento a considerare con sguardo imparziale le vicissitudini morali della nostra epoca.
Questi travagli vengono descritti come “generazionali” in quanto appartenenti unicamente al protagonista, un Commissario di Polizia, peraltro assolutamente depresso.
La tematica tradizionale del conflitto tra bene e male è invece priva di presenza e di Senso per la meno che ventenne deuteragonista.
La qualità dell’esistere di questa inconsistente figura femminile è nettamente caratterizzata dall’assoluta assenza di ogni senso di colpa. E l’attrice che la interpreta, non produce da parte propria alcun compensatorio senso di polpa.
Ricco di ambizioni, opulento nell’insistita sottolineatura calligrafica dei particolari (ben inattinenti alle vicende d’un giallo dichiarato), dotato d’una fotografia a dir poco perfetta, questa “variabile umana”, va decisamente definita come un’elogio della lentezza (leggi staticità).
Il titolo è buono, ma dopo la visione del film, può venir fatto di pensare ad un alternativo “Un dramma della vedovanza” o anche, per essere più chiari, a “Padri e figlie”, con buona pace di Turgheniev.
La sceneggiatura - limpida, ma non priva di alcune valide astuzie concettuali - ha scelto come location una milanodistriscio e la sua periferia borghese, ristretta ad una modesta villetta unifamiliare.
Questi luoghi ospitano, oltre ai due protagonisti, padre e figlia, un ipotetico quanto improbabile orientale: compare a sprazzi nella tessitura della storia e partecipa per apparizioni alla parte certa delle vicende. Come a dimostrare che l’incomunicabilità non è imputabile alla babele delle lingue.
L’incipit della storia connette temporalmente e visivamente l’inizio delle indagini d’un delitto ad una “ragazzata” della giovanissima Linda, la figlia del Commissario. (Ed è subito chiaro che la ragazza non abbia alcuna connessione filiale con il ben più celebrato Mastro Lindo !).
L’accostamento tra le due scene, in nome della succitata limpidezza, decapita però le possibili e agognate indagini private dello spettatore. Che non potrà che attendere la soluzione già spiattellata dagli autori nei primi minuti di proiezione, confidando soltanto nella comodità della poltrona per trascorrere gli ottanta minuti residui della pellicola. (Durata totale del film: 83’)
Dunque, è una questione di tempo e di tempo inattivo: il tempo - e non già le bolsamente corrotte e prodromiche atmosfere delle discoteche milanesi - è il protagonista occulto di queste umane mutevolezze. Tanto da proporsi addirittura come titolo ulteriore, “Il tempo perduto”. (Se si entra nel gioco di massacro silenzioso, allora lo si può fare anche tramite l’involontario Proust)
Il casting ha visto giusto nella scelta del protagonista, il Commissario Monaco (evidentemente monaco agnostico di chiusura anche nella vita) interpretato da un ottimo Silvio Orlando, che si prende tutto il film sulle spalle, offrendosi allo sguardo degli spettatori come fosse il sosia d’un magnifico e ipotetico attore francese.
Ma non si può dire lo stesso per lo sfortunato Bruno Battiston che qui viene ampiamente sottoimpiegato, con danno evidente per il film e per gli spettatori che, a ragion veduta, lo apprezzano e lo amano.
La caduta del casting (o, meglio, il suo sprofondamento) è invece centrata dalla scelta dell’esordiente Alice Raffaelli quale copro-tagonista.
La giovane ballerina diviene qui un’attrice senza una faccia, ma sempre - docilmente - non credibile. Brava al contrario, e ben in parte, Sandra Ceccarelli, maestra nel suo ruolo.
I movimenti di macchina non posseggono alcun rapporto di qualsivoglia significato con le situazioni relazionali che riprendono. Le frequenti riprese dall’alto (come fossero tutte riprese da fotocamere di sorveglianza) risultano fuorvianti ma stucchevoli.
Manca dunque l’assimilazione delle invenzioni di ripresa d’un Tornatore, dove i movimenti di macchina non sono mai gratuiti ma anzi completano la scena filmica.
Il montaggio sembra rifarsi un po’ a quello tragicamente famoso di Mullholland Drive di Lynch: tagliuzza avanti e dietro, spezza e neoconnette la storia senza nulla aggiungere alla drammaticità del testo.
Sempre dalla parte dello spettatore, le emozioni partecipative sono raggrinzite ed anguste e vengono suscitate non tanto dal pathos del commissario quanto dalla sporca insensibilità di Linda (destino contraddetto d’un nome!) da tempo adusa alle proprie insensatezze.
Le musiche del film si fanno apprezzare per la loro quasi totale assenza; grazie a questo particolare tipo di presenza possiamo scoprire come le sottolineature o le sfumature o le anticipazioni delle colonne sonore possano, a volte, distrarre l’attenzione dello spettatore.
In conclusione, nonostante le facili critiche, non si può dire che “La variabile umana” sia un film raté; con il suo esordio, Bruno Oliviero ha senz’altro esagerato, ma ha saputo in ogni caso condurre a termine una sua prima esperienza, che certamente gli sarà preziosa per l’avvenire.
Quando abbandonerà le sue precedenti esperienze documentaristiche, il suo amore inconfessato per Antonioni e quando saprà imbrigliare la smisuratezza delle proprie forse involontarie ambizioni, potrà diventare davvero una bella speranza per il cinema italiano.
Dunque: ‘bbona la… seconda, forse.
30 agosto 2013 Antòn Pasterius
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