Il diavolo veste Prada |
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Un film di David Frankel.
Con Meryl Streep, Anne Hathaway, Stanley Tucci, Simon Baker, Emily Blunt.
continua»
Titolo originale The Devil Wears Prada.
Commedia,
Ratings: Kids+13,
durata 109 min.
- USA 2006.
uscita venerdì 13 ottobre 2006.
MYMONETRO
Il diavolo veste Prada
valutazione media:
2,44
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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The Devil wears Prada.La libertà in cinque parole.di M.Cristina LucchettaFeedback: 0 |
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mercoledì 22 novembre 2006 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il diavolo veste Prada ma anche Hermes, Fendi, Chanel, Dolce&Gabbana. « Con due b o con una ? » chiede candidamente Andy, neoassistente factotum della tirannica Miranda Priestley direttrice del RUNWAY, mentre dall’altro capo del telefono qualcuno riattacca bruscamente la cornetta; perché in certi ambienti e a certi livelli, l’oltraggio alla notorietà è un peccato mortale, un vero sacrilegio. L’ ultimo lavoro di David Frankel è un film intelligente e ben confezionato che fotografa con acume e ironia il mondo della moda e fa di splendidi abiti e accessori raffinati gli attori co-protagonisti. Risvegliando la vista. Solleticando la vanità di chi i bei vestiti li ama, li desidera e magari li agogna. Inconfessatamente e non senza un briciolo di invidia, perché come ha scritto Proust che ben conosceva l’arte della seduzione femminile, “nella vita della maggior parte delle donne, tutto, anche il dolore più grande, porta alla messa in prova di un abito nuovo”. Uno spettacolo di colori, una vera lezione di stile, un puro bagno di glamour che ridesta i sensi. Un festival di luci e atmosfere dorate tra le passerelle parigine e i lussuosi negozi di New York. Ma “ The Devil wears Prada” è molto di più di un film frivolo e patinato che racconta, non senza compiacimento, la parabola di una trasandata e ingenua ragazzona di provincia, un po’ anatroccolo, che sogna di scrivere sul New Yorker e che, sopportando intollerabili angherie, farà carriera nella più influente e prestigiosa rivista di moda americana, divenendo un bellissimo cigno, una quasi top-model. Fuori concorso alla 63a mostra del cinema di Venezia, Il Diavolo Veste Prada stigmatizza, con i toni della commedia brillante, il fascino del potere e le sue inesorabili leggi, ritraendo con scanzonata crudeltà imperatori e sudditi, vittime e carnefici. Mostrando con pungente ironia le logiche che governano il desiderio di potenza e l’esercizio delle sue perversioni e al tempo stesso le dinamiche che portano ad abbandonare le scarpe piatte per calzare vertiginosi tacchi a spillo firmati Manolo Blahnik. A dimagrire la taglia e a far ingrassare l’“io”. «Piccolo uomo, ego mastodontico» recita una battuta del film, a dimostrazione di come la legge del compenso si contraddica raramente. Una pellicola arguta in frivole vesti, che riesce ad universalizzare il mondo dell’alta moda, infernale paradiso (o paradisiaco inferno) ma non più di altri mondi professionali, offrendo un esempio di realismo, quasi un affresco di costume. E non importa se allo spettatore accade di anticipare la sceneggiatura, immaginando la sequenza successiva, perché una siffatta descrizione del potere e delle sue vittime anche quando non offre alla visione fotogrammi memorabili, comunque emoziona e quasi conforta il cuore. Fa sentire tutti sulla stessa barca: chi ha avviato una causa per mobbing e chi invece resiste in modo indomito e spesso cinico, perché la vita è questa, queste le regole del gioco (ovvero del lavoro in contesti professionalmente competitivi). Prendere o lasciare. Eppure questa favola apparentemente scontata che miscela topoi e moralistiche redenzioni, dispensando pillole di buon senso e massime che pretenderebbero di insegnare la vita, diverte e ha un finale sorprendente. In pochissime battute di rara incisività ed efficacia, offre allo spettatore avveduto la possibilità di un volo. Sovvertendo i codici della futilità, inquietando e “perturbando” oltre l’inverosimile. E impressiona che a compiere l’opera di disvelamento sia proprio lui, the Devil. Incapace di sopportare il possibile rifiuto della promozione e dell’ avanzamento di carriera da parte di Andy - all’ amor proprio non si addice il fallimento - nell’atto di dimostrarle fino a che punto la “possiede” e fino a che punto egli abbia già vinto (ha fatto di un tegamino una bellissima pentola) inciampa in un irrimediabile errore ( e non riesce a forgiare il coperchio). Cinque semplici parole: « hai scelto di andare avanti » sono più che sufficienti a ridestare il dramma dell’umana libertà. E in quest’ultimo dialogo tra la perfida Mirando e la vessata Andy, da consegnare alla memoria, c’è il nucleo e lo spessore del film. In fondo, sin dall’incipit, sapevamo che la ragazzona di provincia out of fashion, compiute le opportune metamorfosi, sarebbe ritornata tra le braccia del mai dimenticato fidanzatino. La favola lo esige. Ma le ragioni sentimentali sono un pretesto insufficiente per un così radicale cambiamento. Anche in un film che si rispetti. Perché in gioco vi sono ben altri richiami, anche quando le circostanze attenuanti, di cui ci si può sempre avvalere, ci spingeranno a credere che non avevamo scelta. E’ ciò che pensa Andy, più o meno sinceramente, fino a quando il diavolo, in abiti Prada, deposta l’astuzia del serpente, non certo per bontà, ma per eccesso di superbia, non pronuncia quelle cinque fatidiche parole. Ed è un piacere ascoltarle perché ci ricordano che la nostra libertà resta. Sempre. Indissolubilmente coniugata con la possibilità e la responsabilità della scelta. Questo il diavolo lo sa , ma non dovrebbe mai dirlo. A volte però, le parole gli sfuggono di bocca rendendo strette e impervie, per chi le “ascolta”, le porte dei terreni inferni. Una bella prova di regia per David Frankel che si è avvalso di ottime interpretazioni; da Stanley Tucci ad Anne Hathaway che nel ruolo di cenerentola redenta convince e incanta con i suoi occhioni neri, apparendo quasi perfetta per il remake di Colazione da Tiffany. Infine lei, Meryl Streep che alla Laguna avrebbe meritato più di un premio perché è riuscita a conferire ad una “parte fatta” una grazia “luciferina”. Travolgendo. Superando se stessa. La perfidia le si addice ancor più dell’aria languida e romantica e dei ruoli in cui il sentimento rischia di divenire zuccherino. Incanta Meryl, con una recitazione che è tutta nei movimenti delle labbra, nei cenni del capo, nell’angolazione e nell’inclinazione dello sguardo, nel registro vocale, nei toni sussurrati. Algida ma in fondo umana, regale ed altera anche quando mostra le sue vulnerabilità. Incredibilmente bella anche se il trucco non nasconde più le rughe e gli occhi rosso-pianto. Impeccabile nel congedarsi con “E’ tutto”. Indimenticabile nel dire “go” con la perfezione dei grandi. Sorride Meryl nell’andar via. Sorride Handy con in tasca un viatico di cinque parole (che potrebbero anche essere « tu lo hai già fatto »)… e con lei la “virtù bambina”. mcristina.lucchetta@libero.it
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