Oliver Twist

Natalia Aspesi

L’incontro tra Charles Dickens e Roman Polanski, appassionatamente riuniti nell’ennesimo Oliver Twist, è di quelli che provocano un composto singhiozzare come ormai non capita quasi più al cinema, e del tipo che poi, ad occhi ben bene arrossati, mette di buonumore. A meno di essere un critico o letterario o cinematografico, nel qual caso è facile irritarsi per lesa maestà sia dickensiana che polanskiana: nel primo caso, vedi Anthony Lane del New Yorker, il regista, ebreo, viene sgridato soprattutto per aver trasformato Ben Kinsley, già bruttino di suo, scelto per il ruolo di quel crudele Fagin che ha terrorizzato l’infanzia di antichi piccini di buone letture, nella caricatura quasi nazista dell’avido ebreo, con naso a uncino e bocca sdentata, senza tuttavia chiamarlo mai, come nel romanzo, «the Jew», eccesso antisemita dì cui lo scrittore si pentì solo trent’anni dopo, attenuandolo qua e là. Nel secondo caso Polanski è stato biasimato per aver osato passare dall’Olocausto (Il pianista), a una meravigliosa, melodrammatica fiction ottocentesca erroneamente considerata per bambini, e per di più già portata sullo schermo da David Lean (1948), Carol Reed (da un musica! del ‘68), Clive Donner (1982) più dall’immancabile cartone animato disneyano in cui il trovatello è un gattino e i cattivi dei cagnacci randagi.
Eppure noi spettatori di cuore tenero, appassionati di Dickens e di Polanski, siamo contentissimi che, nati a distanza di 121 anni, il grande scrittore e l’appassionato regista abbiano finalmente col-laborato, entrambi portati all’horror, ognuno carico di proprie disperazioni infantili e testimone dì spaventose ingiustizie e disumanità: il primo rinchiuso con tutta la famiglia in prigione nel 1824 a 12 anni, dove il padre scontava una condanna per debiti, e costretto a lavorare bambino in una fabbrica di lucido da scarpe, il secondo privato nel 1941 a 9 anni dei genitori deportati, il padre a Mathausen, la madre ad Auschwitz, in fuga per non farsi internare sino alla fine della guerra. Oliver Twist uscì a puntate a partire dal 1837, l’anno in cui saliva al trono d’Inghilterra la diciottenne Vittoria e nasceva il primo dei dieci figli di Dickens, che allora aveva 25 anni, tre anni dopo l’approvazione della nuova legge sulla povertà, che peggiorava la vita già spaventosa delle migliaia di derelitti che la carità pubblica rinchiudeva in opifici-prigione dove dovevano guadagnarsi il misero pane con lavori faticosi e non pagati.
La Londra dei miserabili, dei piccoli ladri, delle prostitute bambine, dei feroci assassini, degli straccioni, dei senza casa e senza scarpe, degli alcolizzati, era grigia, fangosa, nebbiosa, buia, come anni dopo, nel 1869, la disegnò Gustave Doré: e tale la descrive Polanski, aggiungendoci l’eterna pioggia, lasciando alle scene una livida irrealtà (il film è stato girato a Praga) che rende fiabesca e angosciosa la storia. Per chi cade dalle nuvole, sapendo tutto di Pupo ma nulla del disgraziato piccino vittoriano, si riassume: l’orfano Oliver (Barney Clark, troppo carino, un po’ freddo, qualcuno osa dire persino antipatico tanto da meritarsi ogni randellata) solo al mondo, cade sotto l’ingiustizia, la crudeltà, la persecuzione e lo sfruttamento sia dell’assistenza pubblica che lo chiude in una «workhouse» e lo affama, sia di quella privata che ne abusa e gli dà da mangiare gli avanzi dei cani. In fuga, finisce a Londra nelle grinfie di Fagin che schiavizza ragazzini abbandonati trasformandoli in ladri e delinquenti. Raccolto per strada da, come lo descrive Dickens, «un vecchio gentiluomo di buon cuore», il che oggi farebbe pensare al peggio, viene pettinato, impomatato, gli mettono gilet rigati e cappello a tuba: invece il peggio è che i cattivi, Fagin, il feroce Sykes e i loro compari lo riprendono, le avventure si fanno sempre più sanguinose e terrorizzanti sino a un parziale lieto fine: nel senso che Polanski e il suo sceneggiatore Ronaldo Harwood (Il pianista) piantano lì il piccino che ritrova il vecchio gentiluomo mentre in piazza allestiscono la forca per Fawin: e non raccontano la storia in verità farraginosa di come Oliver ritrova la famiglia, l’onore e il denaro che credeva di non aver mai avuto.
Nel film abbondano grassi gentiluomini benefici con panciotti di seta e favoriti canuti che sono sempre a tavola a mangiare in eccesso mentre i piccoli assistiti muoiono di fame, magistrati nervosi che non capiscono niente e condannano gli innocenti, cani orribili ma non scemi che non si lasciano affogare, prostitute pettorute e di cuore mas temo che fanno una brutta fine, un’umanità dickensiana indifferente, razzista, orribile o ridicola che Polanski riproduce con ironica cattiveria.
Film troppo colto e crudele per i bambini di oggi, potrebbe essere usato come punizione esemplare ogni volta che uno di loro fa scenate ai genitori tremanti, per ottenere da loro l’ennesimo telefonino o i jeans firmati o qualunque altra scemenza i tempi bestiali li obbligano a desiderare.
Da La Repubblica, 21 ottobre 2005


di Natalia Aspesi, 21 ottobre 2005