molenga
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mercoledì 20 luglio 2011
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inadeguatezza
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nella provincia coreana degli anni'ottanta, quando anche la parte meridionale della penisola era sottoposta ad un regime autoritario, un serial killer uccide donne dopo averle violentate: la polizia locale si rivela subito inadeguata, cerca subito tra i disadattati della prefettura e cerca di estrapolare confessioni con la violenza; anche un detective della grande seoul, venuto a dar man forte, si allinea quasi subito ai metodi dei suoi colleghi di campagna: il colpevole non viene fuori....o sì?
Forte condanna di Bong al regime di polizia e alla natura pavida di chi è abituato a vivere nella paura, film ben recitato, ottima fotografia, musiche e atmosfere d'impatto.
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carloalberto
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sabato 19 settembre 2020
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coreani brava gente
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Lo stile di Bong Joon-ho, in questo noir anomalo, ricorda quello di un certo neorealismo italiano, penso, in particolare, al Monicelli de La Grande Guerra o al Fellini de I Vitelloni, che, attraverso la commedia o la tragicommedia e personaggi caratterizzati in modo tale da risultare farseschi, intendeva mostrare il carattere nazionale di un popolo, mettendone alla berlina i difetti ed esaltandone al contempo, a mo’ di contrappunto musicale, i pregi. Queste opere, in apparenza ispirate al castigat ridendo mores, erano invero pure operazioni ideologiche, realizzate al fine di ricostruire, nel secondo dopoguerra, l’identità nazionale, finita in frantumi insieme alle macerie lasciate dal conflitto, mediante la creazione a tavolino, attingendo alle maschere della commedia dell’arte, di un italiano medio idealizzato, una sintesi umanizzata di Pulcinella e Arlecchino, in cui il popolo avrebbe potuto riconoscersi.
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Lo stile di Bong Joon-ho, in questo noir anomalo, ricorda quello di un certo neorealismo italiano, penso, in particolare, al Monicelli de La Grande Guerra o al Fellini de I Vitelloni, che, attraverso la commedia o la tragicommedia e personaggi caratterizzati in modo tale da risultare farseschi, intendeva mostrare il carattere nazionale di un popolo, mettendone alla berlina i difetti ed esaltandone al contempo, a mo’ di contrappunto musicale, i pregi. Queste opere, in apparenza ispirate al castigat ridendo mores, erano invero pure operazioni ideologiche, realizzate al fine di ricostruire, nel secondo dopoguerra, l’identità nazionale, finita in frantumi insieme alle macerie lasciate dal conflitto, mediante la creazione a tavolino, attingendo alle maschere della commedia dell’arte, di un italiano medio idealizzato, una sintesi umanizzata di Pulcinella e Arlecchino, in cui il popolo avrebbe potuto riconoscersi. Grave errore del nostro cinema e sua l’enorme responsabilità di aver fornito quei modelli ad un popolo che avrebbe continuato, da allora, a ridere compiaciuto delle proprie debolezze fino ai giorni nostri.
Hwaseong, cittadina poco distante dalla Seul dei grattacieli e del benessere importato dagli americani, con i piccoli agglomerati di caseggiati anonimi e di baracche fatiscenti ai margini di sterminati campi coltivati, la gente umile del posto che negli anni ’80, in pieno boom economico, viveva ancora di agricoltura e di duro e pericoloso lavoro nelle cave, in condizioni di povertà ed in alcuni casi in estrema indigenza, i poliziotti ignoranti e violenti che utilizzavano la tortura come metodo routinario per condurre gli interrogatori, le manifestazioni di piazza e le rivolte sociali represse con durezza, non sono lo sfondo per un thriller, ispirato alla storia vera di un famoso serial killer della Corea del Sud, bensì i veri protagonisti del film. La società coreana degli anni ’80 è il soggetto indagato dal regista, in modo impietoso ed ironico, con sguardo ora sarcastico ora divertito ma mai esplicitamente drammatico anche nelle scene più crude.
La faccia simpatica da bambinone ingenuo e malizioso di Song Kang-ho, che sarà anche il protagonista di Parasite, svolge un ruolo analogo a quello di Alberto Sordi nel nostro cinema, personifica il cinismo indifferente, l’opportunismo e la superficialità becera, ma anche l’intimo attaccamento alla propria nazione, la sincera dedizione al proprio lavoro, spinta fino al sacrificio personale, e l’amore per la famiglia, della gente comune nella Corea dell’incipiente modernizzazione con conseguente trasformazione epocale da società agraria a potenza industriale super tecnologizzata. Insomma, parafrasando il titolo di un famoso film del nostro neorealismo, si potrebbe dire: Coreani brava gente. Ma sarà vero? O è l’ennesimo fantoccio creato dall’industria cinematografica per l’identificazione massiva in modelli di cittadini esemplari a cui il potere perdona le piccole furfanterie da gaglioffi a patto che siano buoni di cuore e cioè osservanti ortodossi ed obbedienti della triplice Regola valida in ogni angolo della terra: Lavoro, Patria e Famiglia?
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andrej
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giovedì 2 marzo 2017
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un ottimo thriller psicologico
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Ottimo thriller coreano, molto diverso da altri (per esempio i famosi "No mercy" e "I saw the devil"): meno ricco di azione, assai piu' lento, psicologico, riflessivo. Potrebbe sembrare persino troppo lento se ci si aspettasse un classico action movie, ma e' comunque un film estremamente ben fatto e che dunque non delude e non annoia, se lo si sa apprezzare nelle sue indubbie e molte qualita' : l'approfondimento psicologico dei personaggi, le atmosfere, la sottile e sempre presente suspense, l'ottima regia e interpretazione. Superlativo l'attore Song Kang Ho nel ruolo del detective Park. Film consigliatissimo a chi apprezza i thriller di qualita', meno indicato per gli amanti dell'azione pura.
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Ottimo thriller coreano, molto diverso da altri (per esempio i famosi "No mercy" e "I saw the devil"): meno ricco di azione, assai piu' lento, psicologico, riflessivo. Potrebbe sembrare persino troppo lento se ci si aspettasse un classico action movie, ma e' comunque un film estremamente ben fatto e che dunque non delude e non annoia, se lo si sa apprezzare nelle sue indubbie e molte qualita' : l'approfondimento psicologico dei personaggi, le atmosfere, la sottile e sempre presente suspense, l'ottima regia e interpretazione. Superlativo l'attore Song Kang Ho nel ruolo del detective Park. Film consigliatissimo a chi apprezza i thriller di qualita', meno indicato per gli amanti dell'azione pura.
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fabiofeli
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lunedì 17 febbraio 2020
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smaschero un assassino, se mi fissa negli occhi
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Dalle parti di una cittadina della Corea del Sud nel 1986 viene trovato in un canale lungo i campi coltivati il corpo di una giovane donna violentata ed uccisa. Un investigatore di nome Park (Song Kang-ho) e il suo collaboratore incolpano del delitto un ragazzo lento di comprendonio grazie a molteplici brutali interrogatori a suon di calci e ceffoni. L’investigatore si vanta di poter capire se un tizio è un assassino solo fissandolo negli occhi: una tecnica lombrosiana “avanzata”, non c’è che dire! I due fabbricano una falsa prova con una impronta di scarpe da tennis nel fango vicino a quello che credono sia il luogo di ritrovamento del cadavere, regalando poi le scarpe al malcapitato accusato.
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Dalle parti di una cittadina della Corea del Sud nel 1986 viene trovato in un canale lungo i campi coltivati il corpo di una giovane donna violentata ed uccisa. Un investigatore di nome Park (Song Kang-ho) e il suo collaboratore incolpano del delitto un ragazzo lento di comprendonio grazie a molteplici brutali interrogatori a suon di calci e ceffoni. L’investigatore si vanta di poter capire se un tizio è un assassino solo fissandolo negli occhi: una tecnica lombrosiana “avanzata”, non c’è che dire! I due fabbricano una falsa prova con una impronta di scarpe da tennis nel fango vicino a quello che credono sia il luogo di ritrovamento del cadavere, regalando poi le scarpe al malcapitato accusato. Ma da Seul giunge un altro investigatore, Seo Tae-yoon (Sang Kyung Kim), un po’ più esperto degli altri due: non crede alla colpa dell’incriminato che ritratta la confessione estorta, perché si susseguono sparizioni e uccisioni di “belle ragazze vestite di rosso nelle sere di pioggia”. Una ulteriore pista può essere fornita dalla concomitanza dei delitti con la trasmissione ad una radio locale di una certa canzone nelle sere di pioggia: va in carcere il giovane che ha telefonato alla radio per chiedere la messa in onda della canzone ed anche Seo Tae-yoon adotta le maniere forti per farlo confessare. Gli omicidi, però continuano … e quindi che fare? Presidiare l’ultimo luogo del delitto di notte? …
Bong Joon-ho con questa pellicola del 2003 - il suo secondo film su otto girati, doppiato e distribuito solo dopo il successo dell’ottavo, lo strepitoso Parasite nella sera degli Oscar 2020 - ha ottenuto importanti premi nel 2003 (Festival di San Sebastiano, Tokyo e Torino). La storia è ambientata in anni nei quali la Corea del Sud è ancora governata con un regime antidemocratico. Il regista ama il grottesco e, come in Parasite, in Memorie di un assassino si susseguono ripetuti colpi di scena, che rovesciano di continuo lo stato delle indagini: l’attenzione del pubblico si focalizza su ipotesi, verosimiglianze, indizi, dettagli, presto smentiti dai fatti. Chi dovrebbe vigilare sulla sicurezza mette in pericolo chi non c’entra e continua a lasciar libero chi delinque pur di assicurare all’opinione pubblica (che lo reclama ad ogni costo) un capro espiatorio. Oltre a seguire l’abusato “proverbio” di cinema e letteratura del giallo – l’assassino torna sempre nel luogo del delitto – gli incaricati delle indagini provano con la “magia”, quando non funzionano le false prove e le torture, alle quali non si sottrae neanche l’investigatore più colto e dotato di maggiori strumenti pur di fare in fretta. Dalla storia esce un ritratto di un mondo distopico sempre più “universale” e, purtroppo, con qualche somiglianza anche con il nostro: questo ci mette a disagio e ci induce alla riflessione. Tecnica cinematografica, fotografia, sceneggiatura e recitazione sono impeccabili e già mature in questo film girato da Bong all’età di 34 anni. L’umorismo della storia più che rammentare i film di Kitano (noto ed apprezzato regista giapponese) ci ricorda la raffinata opera Right now, Wrong then (Giusto prima, sbagliato dopo), di un altro autore sudcoreano, Hong Sang-soo, premiata al Festival di Locarno nel 2015. Memorie di un assassino è da vedere, apprezzare e consigliare.
Valutazione *** e ½
FabioFeli
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fabiofeli
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lunedì 17 febbraio 2020
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smaschero un assassino, se mi fissa negli occhi
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Dalle parti di una cittadina della Corea del Sud nel 1986 viene trovato in un canale lungo i campi coltivati il corpo di una giovane donna violentata ed uccisa. Un investigatore di nome Park (Song Kang-ho) incolpa del delitto un ragazzo lento di comprendonio grazie a brutali interrogatori. L’investigatore si vanta di poter capire se un tizio è un assassino solo fissandolo negli occhi: una tecnica lombrosiana “avanzata”, non c’è che dire! Fabbrica una falsa prova con una impronta di scarpe da tennis nel fango vicino a quello che crede sia il luogo di ritrovamento del cadavere, regalando poi le scarpe al malcapitato accusato.
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Dalle parti di una cittadina della Corea del Sud nel 1986 viene trovato in un canale lungo i campi coltivati il corpo di una giovane donna violentata ed uccisa. Un investigatore di nome Park (Song Kang-ho) incolpa del delitto un ragazzo lento di comprendonio grazie a brutali interrogatori. L’investigatore si vanta di poter capire se un tizio è un assassino solo fissandolo negli occhi: una tecnica lombrosiana “avanzata”, non c’è che dire! Fabbrica una falsa prova con una impronta di scarpe da tennis nel fango vicino a quello che crede sia il luogo di ritrovamento del cadavere, regalando poi le scarpe al malcapitato accusato. Ma da Seul giunge un altro investigatore, Seo Tae-yoon (Sang Kyung Kim), un po’ più esperto dell’altro: non crede alla colpa dell’incriminato che ritratta la confessione estorta, perché si susseguono sparizioni e uccisioni di “belle ragazze vestite di rosso nelle sere di pioggia”. Una ulteriore pista può essere fornita dalla concomitanza dei delitti con la trasmissione ad una radio locale di una certa canzone nelle sere di pioggia: va in carcere il giovane che ha telefonato alla radio per chiedere la messa in onda della canzone ed anche Seo adotta le maniere forti per farlo confessare. Gli omicidi, però continuano … e quindi che fare?…
Bong Joon-ho con questa pellicola del 2003 - il suo secondo film su otto girati, doppiato e distribuito solo dopo il successo dell’ottavo, lo strepitoso Parasite nella sera degli Oscar 2020 - ha ottenuto importanti premi nel 2003 (Festival di San Sebastiano, Tokyo e Torino). La storia è ambientata in anni nei quali la Corea del Sud è ancora governata con un regime antidemocratico. Il regista ama il grottesco e, come in Parasite, in Memorie di un assassino si susseguono ripetuti colpi di scena, che rovesciano di continuo lo stato delle indagini: l’attenzione del pubblico si focalizza su ipotesi, verosimiglianze, indizi, dettagli, presto smentiti dai fatti. Chi dovrebbe vigilare sulla sicurezza mette in pericolo chi non c’entra e continua a lasciar libero chi delinque pur di assicurare all’opinione pubblica (che lo reclama ad ogni costo) un capro espiatorio. Oltre a seguire l’abusato “proverbio” di cinema e letteratura del giallo – l’assassino torna sempre nel luogo del delitto – gli incaricati delle indagini provano con la “magia”, quando non funzionano le false prove e le torture, alle quali non si sottrae neanche l’investigatore più colto e dotato di maggiori strumenti pur di fare in fretta. Dalla storia esce un ritratto di un mondo distopico sempre più “universale” e, purtroppo, con qualche somiglianza anche con il nostro: questo ci mette a disagio e ci induce alla riflessione. Tecnica cinematografica, fotografia, sceneggiatura e recitazione sono impeccabili e già mature in questo film girato da Bong all’età di 34 anni. L’umorismo della storia più che rammentare i film di Kitano (noto ed apprezzato regista giapponese) ci ricorda la raffinata opera Right now, Wrong then (Giusto prima, sbagliato dopo), di un altro autore sudcoreano, Hong Sang-soo, premiata al Festival di Locarno nel 2015. Memorie di un assassino è da vedere, apprezzare e consigliare.
Valutazione *** e ½
FabioFeli
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