Roberto Nepoti
La Repubblica
Tra il milione di rifugiati a Peshawar nell'ottobre del 2001, in seguito ai bombardamenti americani dell'Afghanistan, ci sono due cugini: il giovane Enayat e il giovanissimo Jamal, un orfano che vive nel campo-profughi. Quando il padre decide di mandare Enayat in Inghilterra, nella speranza di una vita migliore, Jamal ottiene di accompagnarlo grazie al fatto che sa parlare inglese: persuade tutti che potrà essere utile al cugino.
Varcato clandestinamente il confine con l'Iran, i due proseguono a piedi attraverso il Kurdistan sull'antica via della seta, ora via del contrabbando di petrolio e d'oppio; giungono a Istanbul e riprendono la peregrinazione alla volta dell'Italia, stivati in un cargo da cui non tutti usciranno vivi. In una Trieste ricca e indifferente, Jamal sopravvive scippando borsette; prima che il viaggio della speranza (più volte declinata in disperazione) prosegua verso Parigi e Londra. Sarà magari un pregiudizio di chi ama il cinema, però a volte hai la sensazione che un film possa dirti di più su guerre, bombardamenti e profughi di questi tormentati anni di quanto non sia in grado di fare una dozzina di dibattiti televisivi quotidiani con esperti militari, politici, tuttologi e showgirl.
Cose di questo mondo, Orso d'Oro a Berlino, ottiene l'effetto raccontando una storia (pienamente realistica), mostrando volti (di assoluta verità), immergendoti in una babele di linguaggi (saggiamente, il film è distribuito in edizione originale sottotitolata), facendoti identificare con i personaggi e trasmettendoti un autentico senso d'indignazione, di sacrosanto scandalo per le ingiustizie e le violenze perpetrate ai danni di gente di cui ignori quasi tutto ma che, alla fine del film, ti sembra di conoscere un po' di più.
Eclettico per definizione - il che non significa privo di sincerità - discontinuo nei risultati, Michael Winterbottom aveva già tentato qualcosa del genere conBenvenuti a Sarajevo, però era caduto nella trappola della retorica e dei buoni sentimenti a comando. Nulla del genere, questa volta. Nel narrare l'odissea dei due giovani clandestini afghani, il regista adotta un linguaggio semidocumentario, tiene sotto controllo lo zelo militante (la sua casa di produzione si chiama Revolution Films) e rinuncia a ogni tentazione predicatoria, lasciando parlare immagini di sobria e perentoria eloquenza riprese con telecamera digitale nei luoghi reali dell'azione.
Da La Repubblica, 05 aprile 2003
di Roberto Nepoti, 05 aprile 2003