Ultimo tango a Parigi

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Un film di Bernardo Bertolucci. Con Marlon Brando, Maria Schneider, Maria Michi, Giovanna Galletti, Gitt Magrini.
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Drammatico, durata 132 min. - Italia 1972. - CSC Production uscita lunedì 21 maggio 2018. MYMONETRO Ultimo tango a Parigi * * * 1/2 - valutazione media: 3,70 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Controverso, ma si fa apprezzare per la tragicità. Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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lunedì 11 luglio 2016

ULTIMO TANGO A PARIGI (IT/FR, 1972) diretto da BERNARDO BERTOLUCCI. Interpretato da MARLON BRANDO, MARIA SCHNEIDER, JEAN-PIERRE LéAUD, MASSIMO GIROTTI, MARIA MICHI, GIOVANNA GALLETTI, CATHERINE ALLéGRET, VERONICA LAZAR, LAURA BETTI
A Passy, un uomo americano di mezz’età, albergatore afflitto e disperato perché appena rimasto vedovo, e una giovane parigina si incontrano casualmente all’attico di un appartamento sfitto e iniziano una relazione sessuale basata sulla completa ignoranza di qualunque cosa riguardi la vita di entrambi fuori dall’appartamento stesso. Lui si chiama Paul, ha un rapporto controverso con la suocera e fatica a riprendersi dal suo recente lutto, per quanto faccia di tutto per accusare di fatale leggerezza la moglie suicida, che aveva anche un gentile amante, Marcel, che Paul conosce in modo educato e tranquillo. Lei si chiama Jeanne, ha una relazione altalenante e poco seria con Tom, un regista all’incirca suo coetaneo che gira insieme a lei un film amatoriale, figlia di un militare, legata affettuosamente ai ricordi d’infanzia e desiderosa di esperienze sessuali edificanti. Il rapporto fra Paul e Jeanne prosegue all’interno di una caverna primitiva che si trasforma sempre più in camera d’espiazione, luogo di sfogo delle pulsioni primordiali e abitacolo in cui riversare le frustrazioni di una vita inappagante, fra promesse non mantenute, addii simulati, forzature e confidenze non troppo intenzionali, finché la cosa non assume un carattere morboso e sfocia in un epilogo sanguinoso. È probabilmente il film più discusso e controverso della storia del cinema, o quantomeno relativamente alla sua epoca, ma i critici che allora lo tacciarono di «esasperato pansessualismo fine a sé stesso» ne hanno eccessivamente accentuato la vena che tende ad analizzarne l’aspetto che valuta il favore verso l’amore puro, perché in realtà, se lo si guarda almeno un paio di volte e con occhio esaminatore, la sua natura vera e propria è quella di un apologo estremamente pessimistico sulla condizione umana in un mondo popolato da perdenti, reietti, uomini e donne in ogni maniera compulsivi e autolesionisti: la cupezza negli animi dei due protagonisti è rivelatrice in merito alle insicurezze che covano dentro, ai desideri che si illudono di soddisfare senza riuscirvi appieno e alle conoscenze profonde che credono di avere e che puntualmente vengono smontate da un modo di vivere superficiale che mette a nudo una debolezza incolmabile e insuperabile. Il regista dichiarò in un’intervista di avere avuto l’idea di base tramite un sogno, nel quale incontrava una donna e intrecciava un rapporto amoroso con lei, ignorandone completamente la provenienza, il nome e ogni altra informazione inerente alla sua identità. L’opera vale soprattutto per il talento e la bravura incontrovertibili di un M. Brando mai stato così in forma nel definire un carattere travagliato, inquieto e approfittatore, che utilizza le donne come mezzo di appagamento dei propri piaceri fisici senza capirle davvero e soprattutto senza coglierne gli aspetti che la natura maschile non può afferrare; l’attore statunitense (1924-2004) sa anche però fornire umanità e compassione al suo protagonista perdente, accompagnandolo in una sorte segnata fin dal momento in cui varca la soglia dell’appartamento-bordello e recitando anche la sua morte con una professionalità ammirevole. Non si può fare un discorso analogo per la Schneider: oltre al fatto che la 20enne attrice di origini romene ebbe un grave esaurimento nervoso al termine delle riprese, la sua recitazione risulta sacrificata, appesantita e in parte oscurata dalla superiorità del suo collega maschile, ma una carica di sensualità e femminilità abbastanza suadenti sono elementi che non le si possono detrarre indiscriminatamente. Bravi Léaud e Girotti nelle vesti rispettivamente dell’entusiasta cineasta e del galante amante di Rose, la moglie suicida di Paul: la loro partecipazione al film servì soprattutto a delineare meglio, ai fini quantomeno della sceneggiatura, le vicende private e ricche di sofferenze di Paul e Jeanne. Splendida fotografia di Vittorio Storaro, mentre altri meriti innegabili vanno attribuiti senza dubbio ad una colonna sonora (musiche jazz composte da Gato Barbieri e orchestrate da Oliver Nelson) che appone un crescendo rossiniano alla drammaticità (e pure alla tensione drammatica) del film man mano che le sequenze progrediscono, e ad un montaggio (Franco Arcalli, coadiuvato da Roberto Perpignani) che segue passo dopo passo l’evolversi di una storia che trova la sua ragion d’essere nella sua natura anticonvenzionale, originale e trasgressiva. La trasgressione non sta tuttavia nelle accuse che non solo la critica, ma anche gli ambienti ecclesiastici, mosse al film, "condannandolo al rogo" e proibendone la trasmissione sul piccolo schermo per quindici anni, finché non fu emessa la sentenza di non oscenità nel 1987: il fatto che Ultimo tango a Parigi abbia letteralmente e decisamente rotto gli schemi rispetto al cinema erotico-drammatico del passato, sta più nella sua intenzione di rappresentare il sesso nella sua apparenza più primigenia, e specialmente nell’intenzione di raffigurarlo come mezzo di regressione umanitaria, impoverimento culturale e distruzione del raziocinio. Un esito tutto sommato felicissimo, piacevole e definitivo che raramente il regista parmigiano avrebbe saputo replicare in futuro, almeno nel cinema drammatico di cui è stato, e rimane, un maestro indiscutibile e notevolmente ferrato.  

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