Pantaloni modello skinny in jeans (quelli aderentissimi che strizzano la gamba) messi dentro al calzino bianco, giubbotto bomber, anfibi dottor Martens, camicie Ben Sherman a quadri bianco rosso e blu, bretelle e capelli rasati per i maschi, per le femmine, stessa solfa, ma i capelli non vanno completamente rasati, bisogna lasciarli lunghi ai lati e nella frangia. This is England, questa è l’Inghilterra. 1983, Midlands (una delle regioni inglesi) Shaun (Thomas Turgoose, strepitoso, prima opera) è un ragazzino orfano di padre (morto nella guerra della Faulklands) grassottello e dai cappelli rossicci deriso dai compagni di scuola. E’ povero, tosto, arrabbiato, risponde alle battute ma combatte da solo finché non trova un gruppo di skin (tutti molto più grandi) che lo introducono, affascinati dal suo coraggio e sfrontatezza, nel loro mondo reale. Un sottoproletariato di ragazzi giovani, disillusi, ribelli, selvaggi ma coesi e tolleranti (tra di loro persino un ragazzo di colore giamaicano migliore amico del leader del gruppo, Woody). Vandali, ma non violenti, per lo meno non con gli altri, solo tra di loro (e principalmente verbalmente). Nelle giornate a tempo perso (l’unica che pare lavorare è Lol, fidanzata di Woody) tra birre, sigarette, schiaffi in testa e sfottò, cassette musicali e tavole calde ritorna Combo (Stephen Graham, molto bravo) un vecchio amico fanatico, molto più anziano, appena uscito di prigione. Ha nuove idee nazionaliste, fasciste e razziste, nuovi piani e nuovi comitati da frequentare (il Fronte Nazionale). Non convince tutti, solo pochi adepti (tra cui Shaun, che vede in lui una sorta di padre alternativo) lo seguiranno nel suo percorso (ora si) violento, xenofobo e razzista (soprattutto nei confronti dei pakistani) finché alla fine le conseguenze degli atteggiamenti di Combo porteranno a decisioni drastiche e ripensamenti da parte del piccolo protagonista. Un dramma preciso e angoscioso, caratteri ben delineati e ben fedeli a quelle che erano le dinamiche sociali di allora e gli skinhead, il potere forte della disoccupazione che genera mostri, la facile corruttibilità di giovani ragazzi senza futuro che (soprattutto da giovanissimi) ozieggiano senza obiettivo e si attaccano a chi è in grado di fornirgli qualcosa per cui lottare, un facile comun denominatore ingannevole e distruttivo. Un ragazzino dodicenne sveglio, basso e con la faccia da bambino, che si atteggia da adulto (nei modelli di adulto che lo circondano) beve dice parolacce ma rimane buono, la sua voglia di giocare, di avere amici, la tenerezza con cui si vuole prendere cura della sua ragazza e con cui, per un momento, si spoglia del suo personaggio e torna indifeso. E il finale, quando veramente fa l’unica scelta adulta e matura. Film di Shane Meadows (ha dichiarato che si è ispirato alla sua esperienza personale) riuscito e interessante proprio perché, oltre a scelte stilistiche notevoli (la colonna sonora affidata a Ludovico Einaudi che mette un po’ di sé nei punti giusti e in altri un po’ di Smiths, Soft Cell e altre preziosità), questa non è solo l’Inghilterra, ma è l’Italia, la Svezia, l’Austria, e tanti altri paesi che oggi (non negli anni ottanta) nelle profonde crisi e sfiducie vedono (seppur in piccolissima parte, ma altrettanto dannosa) la perdita di giovani nell’adesione a questi branchi ciechi e arrabbiati. Premio della Giuria al Festival del Cinema di Roma.
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