Ciliegine

Parigi, giorni nostri. Amanda (Laura Morante) è una scrittrice energica, indipendente ma molto indisponente. Vive infelicemente una relazione con il povero Bertrand (Frédéric Pierrot), che nonostante le tante attenzioni pare non considerarla nelle questioni che a lei stanno a cuore come quella ciliegina sulla torta, mangiata subito, senza aspettarla (del resto, come darle torto). Vera rompi-balle assilla l’amica Florance (Isabelle Carrè, Emotivi Anonimi) sulla sua delusione dagli uomini (tutti considerati velatamente alla stregua di fissa-tette,immaturi e narcisi) e lei, preoccupatissima, cerca in tutti i modi di redimerla, contenere i suoi sfoghi e farle cambiare idea finché, la sera di Capodanno, la costringe ad andare ad una festa (notare che lei, indispettita, avrebbe preferito restare a casa a leggere un libro). Lì però conosce Antoine (Pascal Elbé), introverso, sensibile e bene educato (e dannatamente bello). Stupita l’amica che la vede aprirsi, comportarsi in maniera spontanea ed abbandonare il suo solito atteggiamento aggressivo da mastino napoletano. Pensa subito al colpo di fulmine, che tutto può. Dopo poco scopre la verità. Amanda è (sin da subito) convinta che Antoine sia gay, quindi innocuo. Florance, spinta dal marito psichiatra (fantastico Patrice Thibaud) decide, con non poche preoccupazioni, di non svelare subito il malinteso e lasciare la possibilità a l’altra di mostrarsi tranquillamente per quella che è (anche nelle sue insicurezze) data questa ghiottissima occasione. Antoine, innamorato, all’inizio non capisce poi resta al gioco. Tra giornate al planetario, dove prendersi una pausa da quel mondo che tanto spaventa, e chiacchierate al parco il film scorre leggerissimo con molti momenti comici. Laura Morante (dà l’idea che si conservi in qualche liquido criogenico) è sempre bella ed elegante e, dall’alto dei suoi over-cinquanta (non dico esattamente quanti, tanto non ci si crede e sinceramente non ce ne frega nulla) passa alla sua prima regia estremamente raffinata che ricorda molto quella di Woody Allen. Suo l’intreccio della storia (è anche co-sceneggiatrice) e l’aver posto l’attenzione su un problema: quello dell’androfobia. Disturbo (a quanto si apprende dal film) inconscio che si palesa con un ostinato rifiuto del genere maschile intriso di forti componenti ideologiche (vedi certe idee sul mondo degli uomini). Come Amanda, che sa che l’unica certezza nella sua vita è il cane (magari nemmeno lui maschio), consolazione di tutte quelle signore che, volenti (nel caso) o nolenti, rimangono scompagnate. Ma sarà costretta a cambiare idea, abbandonare il suo dover-essere e salire su quel treno, data la mancanza di altri dopo da prendere. E chi lo sa, se molte altre ragazze, vedendo il film, non decidano di pensarci su e fare altrettanto. Senza abbandonare le loro conquiste, ovviamente. Altrimenti siamo daccapo.