LE VACANZE DI MONSIEUR HULOT (FR, 1953) diretto da JACQUES TATI. Interpretato da JACQUES TATI, LOUIS PERRAULT, NATHALIE PASCAUD, MICHèLE ROLLA, VALENTINE CAMAX, RENé LACOURT
Non gradendo la rumorosità caotica dei treni, Monsieur Hulot parte a bordo della sua malconcia automobile scoppiettante per l’Hotel de la Plage, il modesto alberghetto che costituisce la sua meta. Incurante dei commenti ironici che provoca il suo passaggio, arriva a destinazione alla pensioncina familiare su una spiaggia della Bretagna e da lì gli capitano tante piccole disavventure. Finiscono le ferie, rimane la malinconia. In molti lo reputano il capolavoro di Tati, di cui è il secondo lungometraggio. La sua comicità di osservazione (Hulot è un testimone, più che un protagonista) trova qui, attraverso una sequela di gag irresistibili, l’apice poetico in un bianconero sonoro e non parlato, con dialoghi rarefatti, talvolta non doppiati o al massimo mutati in borborigmi. Il film rappresenta d’altronde una satira bonaria, ma qua e là anche pungente, delle smanie per la villeggiatura tipiche della media borghesia. La cronaca vacanziera del calvario di Hulot sulla costa bretone lo vede scontrarsi con gli aspetti più banali e ridicoli della realtà della villeggiatura, ma lui procede imperturbabile per la propria strada, pronunciando a malapena il suo nome quando gli viene richiesto e per il resto mantenendo un ossequioso silenzio. Come spesso accade nel cinema francese, la colonna sonora è piuttosto avara e, nel caso più specifico della filmografia di colui che nasce come mimo circense, limitata agli attimi di culmine umoristico in cui le trovate divertenti esplodono con una ricchezza contemporaneamente eguale di immagini e note musicali. Dal precedente film lungo, Giorno di festa (1949), in cui Tati interpretava un postino ciclista smanioso di imitare i ben più equipaggiati e, all’apparenza, audaci colleghi d’oltreoceano, l’attore-regista matura anche l’attenzione ambientale, curando di più i tòpoi che contraddistinguono il calderone largheggiante e illimitato in cui Hulot guarda muoversi gli altri personaggi (le coppie villeggianti che si scontrano bonariamente fra loro; i camerieri distratti e impacciati; i bambini in vena di disturbare con la loro ludica dirompenza; i capitani navali intralciati dall’incompetenza dei bagnini; i giocatori di carte sonnacchiosi che non ricordano più a quale tavolo stanno giocando; le ragazze impegnate a cimentarsi con le racchette nei campi da tennis per gli ospiti più chic), interloquendo con essi di tanto in tanto e, ogni volta, infilandosi in caroselli di pasticci a ripetizione che richiamano uno slapstick meno accentuato di quello classico perché fondato sulla sobrietà e sull’accumulazione men che mai autoreferenziale. La durata contenuta di questa commedia balneare rappresenta, dal canto suo, un punto fondamentale a favore dei contributi tecnici, e ne giovano soprattutto il montaggio quieto, la scenografia teatraleggiante, la fotografia favorente la spassosità dei tempi comici grazie alla propria schematicità e le battute distanziate di una sceneggiatura che pur tuttavia non arranca e pigia a pieno ritmo il pedale della buffoneria scanzonata. Da notare anche la solitudine in cui riversa il protagonista: lungi dal costituire una condizione di sofferenza o quantomeno di frustrazione, è una sua scelta di vita che gli comporta distrazioni ventiquattro ore su ventiquattro fino a renderlo complice involontario della propria dabbenaggine, abbracciando l’arte della pantomima tout court a lui tanto cara che gli consente di innescare risate salubri nonostante il rischio di rovinare nella routine noiosa e priva di stimoli. Un esito finale estremamente positivo che, come sopracitato, evita di polemizzare in modo aperto contro le classi medio-borghesi ammalate tanto di riti spendaccioni quanto di trasferte "pseudo-esotiche", ma vi rivolge comunque uno sguardo che manifesta un dispetto per le magagne dell’industria turistica. La caricatura dello scapolo che vaga talvolta senza meta né orologio e talaltra con convinzioni più agguerrite sarà un leitmotiv emozionante anche nei successivi Mon oncle (1958) e Play Time – Tempo di divertimento (1967).
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