New York 1961! Dalla pancia dell’America profonda (Duluth, Minnesota), in una ‘grande mela’ già densa di fermenti culturali giovanili, sbarca il diciannovenne Robert Allen Zimmerman (sarà il suo vero nome?): per tutti Bob Dylan. Porta con sé una chitarra, tanto talento e il mito di due folk singer del calibro di Woody Guthrie e Pete Seeger che, dopo averlo ascoltato, lo battezzano in fretta come loro erede…così la crisalide diventò farfalla. Simbolicamente, in un locale, presente il ragazzo, Pete intona “This land is your land”, storica ballata di lotta e di protesta di Woody, ormai sul letto di morte, che è anche il titolo della sua autobiografia in Italiano, diventata anche un fortunato film di Hal Hasby: “Questa terra è la mia terra” (1976). Prima nei pub e nei locali del Greenwich Village, poi nel ristretto novero dei cantautori folk impegnati, il giovanotto si mostra subito per quel che è: talento cristallino e prospettive invidiabili, ma carattere difficile, spigoloso, egocentrico. James Mangold, regista della pellicola tratta dalla monografia di Elijah Wald (“Il giorno che Dylan prese la chitarra elettrica” ed. Feltrinelli), ma anche realizzatore del biopic dedicato a Johnny Cash (“Quando l’amore brucia l’anima” del 2006), non vuole certo disegnare il santino dell’astro nascente, la sceneggiatura, del resto, era stata preventivamente accettata dallo stesso menestrello di Duluth, qui anche produttore esecutivo. Siamo, comunque, di fronte ad un’opera dalla straripante bellezza, tutti toccati dalla grazia: attori, regista, sceneggiatori, costumisti ecc; la nomination a 8 Oscar certifica una ricostruzione d’epoca a dir poco magistrale. I luoghi, le canzoni, l’abbigliamento, la sorprendente capacità mimetica di Thimotée Chalamet nei panni del protagonista, il candore e la gentilezza di Edward Norton (Pete Seeger), la semplicità e la profondità canora di Monica Barbaro (Joan Baez). Un film pensato per esaltare la musica e non la musica per esaltare il film! Nei 141’ di durata la festa non finisce mai, siamo sul palco di Newport, in sala di registrazione con fenomeni come Al Cooper e Mike Bloomfield, a fianco a Bob di notte, alla disperata ricerca di ispirazione per i suoi infiniti inni generazionali. Tutto il meglio della “My generation” (rileggetevi per favore il testo di Pete Townsend) c’è: dalla Triumph inforcata con giovanile spavalderia da Dylan alla chitarra di Johnny Cash, quasi puntata contro di noi, pronta a ‘sparare’ ritmo, gioia, condivisione, mentre la ‘sporca guerra’ del Vietnam entrava in diretta tv nelle case degli Americani. Si, anche la grande storia reclama la sua parte nel film di Mangold, la crisi dei missili a Cuba, L’assassinio del Presidente Kennedy o quella di Malcom X punteggiano la narrazione con brevi inserti originali dai tg dell’epoca. Lo so, lo so, state per dirmi che ben altra è l’aria che tira attualmente nel “Grande Paese”, a più di 60 anni da quegli eventi, ma ci era già arrivato, solo vent’anni dopo, Franco Battiato, quando cantava, rivolgendosi proprio al nostro protagonista: ”Mister tamburino non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare”. Però, alla fine, qualcuno dovrà pur tentare di innalzare un argine di fronte alla minacciosa ondata sanremese che sta per abbattersi sul nostro Paese inerme…. E, credetemi, quell’argine porta gli occhiali neri e l’aria quasi sempre imbronciata di Bob Dylan.
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