"The invisibile man", un misto tra thriller horror e fantascienza è l’ultima fatica di Leigh Wannel, capace di trattare un tema nonostante tutto molto reale ovvero la violenza sulle donne in chiave innovativa e metaforica.
Ci pone sin da subito in un luogo isolato, in una villa iper-tecnologica dall’elegante design, in cima ad una scogliera su cui si infrangono i flutti impetuosi dell’oceano, di notte. Qui una giovane donna la nostra protagonista, Cecilia (Elizabeth Moss), fugge silenziosamente da quell’isolato fortino (dopo un premeditato piano d’azione) dall’uomo che le dorme al fianco, Adrien, che si scoprirà essere un manipolatore sadico, violento e possessivo (nonché magnate dell’ottica e inventore), per rifugiarsi a casa dell’amico di infanzia della sorella, James, detective della polizia.
L'apparente liberazione dal sentimento d’angoscia che vive Cecilia ogni giorno relegata in casa, sembra arrivare con la notizia due settimane dopo, del suicidio dell’uomo e il lascito, secondo le sue ultime volontà, di un fondo fiduciario di cinque milioni di dollari dilazionati in tranche di centomila dollari mensili sul suo conto per quattro anni (sic dixit l’avvocato fratello di Adrien, Tom)
Bene, Cecilia si rilassa, tutto sembra finito, il bastardo avrà avuto qualche crisi di rimorso e magari ha deciso di farla finita. Ma questa spiegazione a Cecilia pare strana, in contrasto apparente con il comportamento dell’uomo da sempre cinico e speculatore. Questi dubbi saranno pian piano, nel corso di una buona ora, confermati da strani “fenomeni” e altrettante strane “coincidenze” proprio nella casa dove la donna è ospite, che pian piano rendono l’ansia di sentirsi braccata, una realtà decisamente più concreta di una paranoia mentale.
The invisible man, nei suoi centoventi e rotti minuti, non molla un colpo grazie anche alle capacità attoriali di Elizabeth Mosso, vitta isterica e fredda vendicatrice. Coniuga con sapienza, grazie a un’elegante fotografia nitida e geometrica, il sentimento di angoscia vissuto dalla donna e empaticamente trasmesso allo spettatore grazie a quella girandola di corridoi, angoli remoti, sequenze con tanti primi piani da buon vecchio film horror degli anni ’70, insinuando misteriose presenze che assumono via via contorni sempre più inquietanti.
Ecco se tutto questo nella prima ora intrattiene, stimola e inchioda lo spettatore alla poltrona, dalla seconda parte in poi, la sceneggiatura, pur mantenendosi serrata, si palesa confusa, con tantissime lacune dal punto stilistico di cui, spesso, non si capisce bene il significato di molte scene inserite là solo per il desiderio di mostrare la labilità mentale della donna, incarnandosi nella minaccia di un poltergeist a cui nessuno crede e che come al solito si palesa solo frutto di una malattia mentale della protagonista, una parentesi assai poco efficace che toglie una buona parte della tensione sinora accumulata.
Ma poco importa, perché il sottotesto dell’uomo invisibile, nella sua specificità di “film di genere” in tempi di me too e campagne di violenza contro le donne, è propedeutico a gettare uno squarcio inquietante sui controlli della macchina sull’uomo, sulla necessità di essere “visibili” e raggiungibili al tempo stesso sempre e ovunque, in ogni momento, sulla possibilità di essere figli della luce in tempi di tenebre fitte frutto di aguzzini invisibili.
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