Magari non era nelle intenzioni di Jojo Moyes, sceneggiatrice ed autrice del romanzo da cui è tratto il film. Ma “Io prima di te” non sembra altro che una giustapposizione di cose già viste. O, meno benevolmente, un minestrone riscaldato più volte. La ricetta? Base: “Quasi amici” e poi tre dosi di “Pretty woman”, una di “My fair lady”, una spruzzata di “Amelie” e il gioco è fatto.
L’incipit è spudoratamente simile a quello del film francese: un ricco rimasto tetraplegico, un (o in questa caso una) badante piovuto per caso. Ma, se nella commedia di Olivier Nakache e Éric Toledano, la dialettica fra il malato e il suo assistente è resa frizzante dalla antiteticità sociale dei due protagonisti (l’aristocratico ed il nero delle banlieue), fornendo così spunto per una satira diluita ma pur sempre irriverente sui contrasti della società francese, la Moyes preferisce condire tutto in salsa rosa, riproponendo l’eterna favola romantica.
Nel suo progetto Sam Claflin è al posto giusto: con il suo indiscutibile sex appeal, costituisce senz’altro un efficace richiamo per lo stuolo di giovinette o signore âgé (forse più le seconde) ancora legate al mito del Principe Azzurro. Emilia Clarke invece, dismessi i succinti panni di Daenerys Targaryen in “Game of Thrones”, non ha la verve irresistibile di Omar Sy, né sostituisce la fisicità dell’attore senegalese con le doti da Venere tascabile, che appaiono sulle copertine delle riviste da parrucchiere. Improponibile poi il confronto con la più nota Cenerentola dei tempi moderni, la Vivian di “Pretty woman” (il cui plot peraltro è un riferimento cui sicuramente la sceneggiatura ha prestato attenzione): lontani anni luce il fascino magnetico di Julia Roberts e il sorriso che ha stregato più di una generazione, assente la trasgressività del personaggio. Che ruolo viene affidato allora alla povera Clarke? Quello di una ragazza ingenua, goffa e un po’ svampita, paludata con abitini da bambola, calze multicolori e scarpe improponibili. Un po’ Amelie, ma senza la surrealtà del personaggio di Audrey Tautou e senza il tono favolistico del film di Jean-Pierre Jeunet; un po’ Eliza Doolittle, ma senza la grazia inarrivabile di Audrey Hepburn. Un ruolo cui l’attrice inglese si presta offrendo un fisico rotondetto ed una recitazione fatta di smorfiette, occhi sgranati e pose vezzose.
Preparati gli ingredienti il film va avanti da solo su binari già tracciati. Louisa Clark è una ragazza di paese in cerca di lavoro; William Traynor è il rampollo della nobile famiglia locale, come ogni buon Principe Azzurro, bello, ricchissimo e proprietario di un castello (è quello di Pembroke, nella provincia gallese). Lui, a seguito dell’incidente che lo ha reso invalido, ha dovuto abbandonare la brillante carriera di manager ed una vita spericolata, chiudendosi in una solitudine carica di rancore; lei, che, carica di colori e d’allegria, entra nella sua esistenza come una fresca ventata di primavera, saprà addolcirlo. Inevitabile l’amore. Ma, ad aggiungere lacrime alle lacrime, sul loro destino grava, come una spada di Damocle, una inesorabile decisione.
Scontata la storia, scontate anche le dinamiche della coppia: lui diventa naturalmente Pigmalione, lei si cala immediatamente nei panni dell’angelo salvifico. Impressiona poi l’aderenza con cui il susseguirsi degli episodi ricalca i riferimenti cinematografici summenzionati: si va dalla giornata all’ippodromo (“My fair lady”), al concerto classico in abito di gala (“Pretty woman”), con immancabile commozione della piccola fiammiferaia. E non può mancare la scena del ballo, ovviamente adattata alla situazione. Chiamiamole citazioni.
Eppure, nonostante tutto ciò, la regista Thea Sharrock riesce nel compito. Le lacrime sgorgano copiose, il cuoricino si stringe, le farfalline svolazzano davanti agli occhi. Azzecca pure qualche frase ad effetto (“Non voglio rientrare ancora. Voglio essere un uomo che è stato a un concerto con una ragazza vestita di rosso, ancora per qualche minuto.”), mentre la colonna sonora, come sempre in questi casi, fa la sua parte (tanto Ed Sheeran basta e avanza). Ed in più c’è un messaggio, facile facile, ma su cui si può dibattere con interesse.
Ci sono serate in cui il pensare ci è particolarmente grave, serate in cui ci piace essere ancora bambini in attesa di una nuova favola da ascoltare, serate in cui riponiamo in un cassetto il noioso gusto critico e ci basta poco per ridere, piangere o sognare.
Se ve ne capita una, è la serata giusta per andare a vedere “Io prima di te”.
Voto: 6
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