E' solo il 3 Novembre 2014 che accendo la tv e decido di guardare Vita di Pi. Osservo i movimenti di camera secchi, magri delle prime scene. Privi di rotondità e distaccati dalla dimensione raccontata. Ricordo perfettamente la camera posta sul profilo di un tavolo, mentre i due personaggi si accomodano per pranzare. Rimane immobile. Osserviamo da lontano, non ci è permesso studiare le loro espressioni, perdersi nel gioco di ombre e nel fitto interscambio di prospettive. E’ una staticità che lascia lo spettatore lontano, ancora con mille aspettative. E con un brusco cambiamento si inquadra il Pi adulto, incorniciato, fluttuante. E’ sparita la figura dello scrittore di fronte a lui. Siamo noi stessi, faccia a faccia con colui che, con il suo racconto, scaverà il primo livello di profondità. E il film inizia a scendere, ad immergersi lentamente.
Proprio come la nave che affonda sulla fossa delle Marianne. E’ una regia che segue la sceneggiatura, le va dietro, la accompagna. E allora lo svolgimento prende forma.
Da quel momento in poi lo spettatore non ha più bisogno di nulla. L’approccio alle religioni del protagonista lo fanno pensare, lo pongono inevitabilmente da una prospettiva da cui forse potrà provare a spostarsi. La storia si srotola, come un tappeto. A un dolce e caldo sentimento di amore, si oppone il dolore struggente del distacco. Un distacco che, come ci farà notare lo storia, era nei progetti di Dio. Ed è proprio secondo questo progetto, secondo questo disegno, che Dio trascinerà il protagonista sino al punto in cui voleva che arrivasse. La nave costituisce quindi il mezzo, lo strumento necessario allo sviluppo dello svolgimento della storia.
Lo spettatore si confronta con il mare. La fossa delle Marianne. La profondità verticale e l’estensione orizzontale mi hanno messo in subbuglio lo stomaco. E’ l’infinito, in ogni senso. Luogo perfetto per scorgere Dio. Cosa succederà, allora? Pi dovrà sopravvivere con a bordo della sua scialuppa una tigre. Gli altri animali sono morti, nel caos iniziale. In questa pellicola, le cose sembrano andare esattamente come sarebbe successo se la storia fosse stata reale. Lo spettatore assiste, impotente, incapace di fare nulla, di fronte a una reazione a catena di avvenimenti che il protagonista non può controllare, non può cambiare. La ferocia animalesca di una tigre del Bengala deve convivere con la mente umana. In un ritmo mozzafiato, restiamo con Pi ogni secondo. Non lo abbandoniamo mai. Ci immergiamo nella sua mente, sprofondiamo nei suoi sogni ad occhi aperti, che ci trasportano in una dimensione surreale che a poco a poco ci trascina. Scivoliamo giù come in un sogno. Poi riemergiamo. C’è sempre soltanto una cosa, attorno a Pi e a noi. C’è il mare. L’infinito.
Il protagonista si confronta con più cose contemporaneamente. Da una parte il mare, imprevedibile, velato, falsato. Dall’altra la tigre, una distrazione che gli permette di sopravvivere. Ci abituiamo anche noi al luogo. Siamo in balia. Siamo nel mare. Il regista Ang Lee ci ha appena trasportato sull’oceano. Era una dolce trappola. Un esperimento riuscito al 100%.
Arriva un’isola. Un’isola su cui Pi è sul punto di rimanere. Un’analogia lampante si ritrova con i fiori di loto nel viaggio di Odisseo. Se fosse rimasto lì, sarebbe morto.
“Dovevo tornare al mondo” dice il narratore adulto “o morire provandoci”.
Ritorniamo sul mare. Interessante ma discutibile il modo in cui le voci fuori-campo dei due personaggi, cioè della stessa persona, si alternino.
Un film da Oscar come lo è stato Titanic è stato ben attento a porsi sulla prospettiva di una sola delle due Rose, la cui voce anziana ci faceva riemergere dallo straniamento.
Il Messico sarà la loro ancora di salvezza, sua e di Richard, la tigre. La loro divisione è un momento cruciale, quasi uno spannung smorzato dopo che ce ne avevano serviti tanti. Ma pur sempre uno spannung. La tensione che avevo accumulato durante il naufragio si stempera lentamente. E’ il momento della divisione, brusca e inaspettata. Non c’è più tempo per pensare al mare, alla tempesta. La divisione sta avvenendo in quel momento e nulla può cambiare le cose.
La tigre è pur sempre un animale e lo abbandona. Potrebbe dispiacerci, potrebbe toccarci il cuore. Inevitabilmente ci fa pensare, mentre il Pi adulto che avrebbe dovuto imparare molte cose dalla vita mostra la sua ferita ancora aperta, versando delle lacrime che gli rigano le guance. La tigre lo aveva abbandonato. Un film da Oscar. Lo merita tutto. Analogie con Titanic ne ho trovate parecchie, soprattutto il ritorno finale fugace al momento in cui la tigre compie quel salto e scompare tra i cespugli, per sempre. Magnifico. Ho sognato.
[+] lascia un commento a anglee »
[ - ] lascia un commento a anglee »
|