“… al mondo antico, chiuso nel suo cuore, la gente del duemila ormai non crede più!” La storia di Serafino (Adriano Celentano)
Un uomo, un cane, millecinquecento pecore e un sogno di libertà.
Il sogno è quello di Renato Zucchelli, l’ultimo pastore milanese, l’ultimo anacronistico baluardo di una tradizione secolare che da molto tempo ha inevitabilmente reciso ogni legame con i grandi agglomerati urbani.
Il “nostro” Renato, infatti, ha scelto fin da adolescente la vita nomade della pastorizia ma nei mesi più freddi sverna le sue pecore a Settala, nella fattoria di famiglia che dista pochi chilometri dal centro di Milano.Passato l’inverno inizia la transumanza e si trasferisce con il suo enorme gregge nelle alti valli bergamasche, nella zona tra la Valle Seriana e la Val Brembana e l’incantevole Parco delle Orobie.
Renato è un gigante bonaccione, ama la vita in montagna all’aria aperta e i suoi animali, le canzoni di Adriano Celentano e le tradizioni antiche come il presepio. Un ragazzone semplice ma assolutamente non banale, fortemente radicato nella cultura ancestrale dei pastori bergamaschi. E’ uno dei ultimi dieci pastori rimasti in grado di parlare il gai, una lingua pre-medievale utilizzata per comunicare tra loro senza farsi capire dai contadini.
Quando rientra a Settala lo aspetta la sua splendida famiglia, unita e orgogliosa: la moglie, affabile e determinata, e i loro quattro figli.
Ha un sorriso contagioso e l’ingenuità di un bambino. Proprio i bambini e la loro lontananza dalla natura sono la sua “ossessione”. Il suo più grande desiderio è quello di far conoscere loro gli animali, in particolare le sue amate pecore. Il sorprendente regista milanese Marco Bonfanti ha realizzato un piccolo gioiello. Ci fa conoscere Renato ed entrare nella vita dell’Ultimo pastore un po’ alla volta,per passi successivi, attraverso il ciclo delle stagioni della pastorizia che inizia con la transumanza e finisce con il ritorno a casa. Le scelte registiche sono efficaci e indovinate, variano seguendo l’evoluzione del racconto con delle intuizioni tecniche davvero notevoli per un cineasta esordiente. La prima parte, girata nelle valli alpine orobiche, ha scene di rara bellezza, capaci di catturare i meravigliosi paesaggi d’alta montagna con sinuose inquadrature e sequenze a largo campo dai colori ammalianti. I toni romantici, a tratti da favola contemporanea, diventano più freddi e distaccati con la fine della transumanza e lo spostamento del gregge in pianura. Il viaggio verso casa porta con sé la fatica degli animali e la difficoltà di muoversi in mezzo al traffico e al caos della vita cittadina. Ma è anche la scoperta della famiglia di Renato e della quotidianità invernale con il commercio di ovini garantito, in tempi di crisi, dalle macellerie mussulmane. Molto belle anche le immagini dei bambini a scuola e le interviste ai piccoli che preparano l’ultima parte, quella più importante, la “marcia” di Renato e del suo gregge alla conquista di Piazza del Duomo, il compimento del sogno di portare le sue pecore ai bambini milanesi, ai piedi della Madonnina. Qui il tono torna romantico, a tratti addirittura epico. L’incedere di Renato con l’asino, il cane Moru e le settecento pecore (solo metà del gregge è stato autorizzato) verso il centro di Milano è ripreso con inquadrature simboliche e coinvolgenti, dall’effetto allucinatorio, l’utilizzo del rallenty ne enfatizza la spettacolarità. Parte del merito va attribuito a una colonna sonora funzionale e suggestiva, le belle composizioni di Danilo Caposeno accompagnano la storia e la regia con un affiatamento perfetto.
Il film di Marco Bonfanti ha avuto un successo tanto incredibile quanto inaspettato. Partito in sordina, è stato pian piano invitato a decine di Festival in tutto il mondo, ottenendo alla fine anche la distribuzione in sala a livello nazionale, cosa molto difficile per un documentario, tra l’altro italiano.
Il sogno di Renato si è avverato il 1 ottobre 2011. Le sue pecore hanno invaso Piazza del Duomo, le immagini del loro arrivo hanno fatto il giro dei telegiornali di mezzo mondo.
Ma questo per l’Ultimo pastore non era importante, quello che contava era solo portare le pecore ai bambini di Milano.
E dire loro, semplicemente, “mi chiamo Renato Zucchelli, faccio il pastore e questo è il mio mondo”.
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