ricciol one
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domenica 26 febbraio 2012
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un castello di ruggine e angosce
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il film è ottimo,ti tiene incollato alla sedia con trepidazione fino alla fine.Buona la fotografia,che esprime nei primi piani le angosce vissute dai protagonisti e nelle dissolvenze la schizzofrenia del dottor Boldrini.
L'interpretazione dei bamini è veramente stupenda,ti fa sorridere e sentire bene quando giocano,la loro felicità,l'allegria e ti mette paura ,sconforto quando ci sono problemi più grandi di loro.
Il tema del film non è solo sulla pedofilia,ma quanto un fatto può condizionare e sconvolgere la vita di un bambino.Infatti vediamo come da adulti i protagonisti abbiano ancora dentro le angosce,
le paure dei fatti che hanno condizionato la loro vita.
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il film è ottimo,ti tiene incollato alla sedia con trepidazione fino alla fine.Buona la fotografia,che esprime nei primi piani le angosce vissute dai protagonisti e nelle dissolvenze la schizzofrenia del dottor Boldrini.
L'interpretazione dei bamini è veramente stupenda,ti fa sorridere e sentire bene quando giocano,la loro felicità,l'allegria e ti mette paura ,sconforto quando ci sono problemi più grandi di loro.
Il tema del film non è solo sulla pedofilia,ma quanto un fatto può condizionare e sconvolgere la vita di un bambino.Infatti vediamo come da adulti i protagonisti abbiano ancora dentro le angosce,
le paure dei fatti che hanno condizionato la loro vita. Filippo Timi ottimo nel ruolo del cattivo dottor Boldrini,Accorsi, Mastrandrea e Valeria Solarino danno al loro personaggio un'interpretazione a volte di maniera,ma nel complesso
senz'altro positiva.
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enrico omodeo salè
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sabato 10 settembre 2011
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il nuovo sguardo del cinema italiano
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Ruggine di Gaglianone si inserisce in quel filone di cinema italiano che cerca di essere se stesso. Il film infatti non scimmiotta furbescamente certo cinema americano indipendente e nemmeno cerca di creare una storia di cronaca nera con protagonisti i bambini. Viaggia sui suoi binari, con un treno (il film) che, scompartimento dopo scompartimento, prende forma fino a unire i personaggi principali dopo i titoli di coda (per i pochi spettatori rimasti dato che la maggior parte se ne va via subito). Torino, case popolari, il "castello", i bambini, Mastandrea, Solarino, Accorsi. Ognuno per la sua strada, ognuno coinvolto dall'altro minuto dopo minuto. Bella questa concezione narrativa "godardiana", dove la storia non segue un filo cronologico preciso, ma salta nelle storie di ciascuno: Carmine - Mastandrea, parabola discendente dove un capo bulletto "eroe" da bambino finisce senza dignità a ubriacarsi in un baraccio di periferia.
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Ruggine di Gaglianone si inserisce in quel filone di cinema italiano che cerca di essere se stesso. Il film infatti non scimmiotta furbescamente certo cinema americano indipendente e nemmeno cerca di creare una storia di cronaca nera con protagonisti i bambini. Viaggia sui suoi binari, con un treno (il film) che, scompartimento dopo scompartimento, prende forma fino a unire i personaggi principali dopo i titoli di coda (per i pochi spettatori rimasti dato che la maggior parte se ne va via subito). Torino, case popolari, il "castello", i bambini, Mastandrea, Solarino, Accorsi. Ognuno per la sua strada, ognuno coinvolto dall'altro minuto dopo minuto. Bella questa concezione narrativa "godardiana", dove la storia non segue un filo cronologico preciso, ma salta nelle storie di ciascuno: Carmine - Mastandrea, parabola discendente dove un capo bulletto "eroe" da bambino finisce senza dignità a ubriacarsi in un baraccio di periferia. La Solarino insegnante di inglese che prende le parti delle ragazzine "strane" rivivendo il trauma della sua infanzia. Accorsi (sottotono) padre che cerca (esagerando) di dare al figlio quello che suo padre non dava a lui. Infine, fuori da tutti gli schemi psicologici, Filippo Timi il "cattivo" senza se e senza ma, che domina con la sua follia, una storia di colore giallo (per il genere e per gli sfondi) che ricorda "Io non ho paura" di Salvatores raddoppiandone i punti di vista: c'è l'altezza bambino ma poi c'è anche l'altezza uomo che si guarda indietro, in un "campo lungo cinematografico", come racconta la canzone delle "Luci della centrale elettrica" che chiude il film. Rude come la ruggine, profondo come lo sguardo dei piccoli protagonisti.
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paolo castellani
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lunedì 12 settembre 2011
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si può morire e far morire d’amor_1
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Per chi è reduce delle pagine del libro di Massaron, più che ridotto, il film comunica in principio una sensazione di straniamento, di disagio, propriamente narrativo. Sembra affiorare qualcosa di “sbagliato”. Si intuiscono solamente, quasi impercettibili, i contatti fra i personaggi adulti e i bambini, i tre protagonisti di una vicenda di violenza che segnerà per sempre le loro reciproche esistenze. Solo l’ex capo della banda degli Alveari, Carmine, viene chiamato per nome (il suo personaggio, da adulto, viene creato dallo script: il libro non ne parla) da alcuni avventori di un bar malmesso di periferia. C’è anche Cinzia, con un altro cognome, ma sembra precipitata lì, in un consiglio di classe (la si aspettava in una redazione), da un altro mondo.
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Per chi è reduce delle pagine del libro di Massaron, più che ridotto, il film comunica in principio una sensazione di straniamento, di disagio, propriamente narrativo. Sembra affiorare qualcosa di “sbagliato”. Si intuiscono solamente, quasi impercettibili, i contatti fra i personaggi adulti e i bambini, i tre protagonisti di una vicenda di violenza che segnerà per sempre le loro reciproche esistenze. Solo l’ex capo della banda degli Alveari, Carmine, viene chiamato per nome (il suo personaggio, da adulto, viene creato dallo script: il libro non ne parla) da alcuni avventori di un bar malmesso di periferia. C’è anche Cinzia, con un altro cognome, ma sembra precipitata lì, in un consiglio di classe (la si aspettava in una redazione), da un altro mondo. E Sandro gioca sempre con un suo figlio. Non fa altro, per la parte che gli spetta. E i figli, si sa, non chiamano il padre per nome.
Rievoco il bel libro di Massaron perché credo che il lavoro di riscrittura del soggetto per Ruggine sia stato proprio il compito più difficile, il più coraggioso e, probabilmente, il più riuscito.
Gaglianone non imbocca la strada facile del racconto lineare, sorretto dai flash-back dei protagonisti diventati grandi. Sì, c’è naturalmente il continuo rimando e alternarsi di presente-passato, ma i tratti narrativi che li uniscono sembrano sfumati, evanescenti, a volte inafferrabili. Non interessava al regista-autore la vicenda per i suoi dettagli descrittivi, la coerenza narrativa, la storia piccola, orizzontale, il “chi erano” e il “com’è andata a finire”. Sceglie, di quella terribile vicenda, il cuore e le sue tenebre – una banda di ragazzini figli di immigrati dal Sud nella periferia-alveare di una città del Nord, sradicati, senza neppure una lingua codificabile, giocano alla guerra contro i dirimpettai di casermoni, stando arroccati nei meandri arrugginiti e angoscianti di un castello-rudere post industriale, e si trovano a dover fronteggiare l’uomo nero, il drago che li vuole mangiare, nei panni azzimati e autorevoli di un medico davvero troppo “amorevole” – cattura lo spirito di fondo della fiaba, nerissima, e dà un senso ancora più pieno e “storico”, psicologico alla ruggine evocativa del titolo. Cioè quello che rimane nella vita, nelle macerie interiori, nei cuori delle piccole vittime quando si ritrovano nel mondo dei grandi, adulti tra adulti.
C’è tutto, dunque, c’è molto di più, ma la materia viene rivista, riplasmata, riconsiderata con occhi diversi, come nell’incubo di un testimone oculare degli eventi. Gaglianone si fida (e si affida) solo della sensazione, sua e degli spettatori, accantona altri registri, altre inclinazioni, non rispetta codici di divulgazione. Si fida delle suggestioni e le usa per raccontare il male. Inutile e stupido, come ha fatto certa critica, paragonare questo film, certamente ostico, soffocante, ad omologhi americani (per il tema di fondo, per esempio Mystic river), perché è come far nuotare nella stessa acqua pesci di fiume e di mare, come ascoltare una poesia o una favola e poi vivisezionarla secondo i criteri del racconto (verosimiglianza e riconoscibilità di luoghi e persone, rispetto dei tempi, dei nessi di causa-effetto nei passaggi tra i blocchi di sceneggiatura).
No. Gaglianone per ogni singola inquadratura cerca la rappresentazione della tragedia nella memoria che ha lasciato, nelle tracce, nella ruggine. La ruggine è il colore che resta nell’aria e nella materia, la traccia di chi è passato a macchiare, a insozzare, a distruggere una volta per sempre. Sono color ruggine i ricordi di quella maledetta estate per i bambini che non vedevano altro che carcasse d’auto ed elettrodomestici abbandonati. Ruggine è il colore dell’aria che respiravano nei loro nascondigli. Ruggine è il sangue rappreso, come quello che ricopriva i piccoli corpi delle loro amichette violentate e brutalizzate dalla smania delirante del dottor Boldrini. Sa di ruggine il motore emotivo del suo film, la ruggine è quel che è rimasto di quel tempo (Cinzia viene spesso inquadrata di spalle, con la macchina a indugiare sulla nuca, come a volerne carpire la memoria nell’attimo stesso in cui si produce; così gli occhi di Sandro che gioca col figlio sembrano sempre vedere altro; mentre la logorrea di Carmine appare sospesa, a lasciar cadere il risolutivo “coppole di minchia”, espressione identificativa del Carmine capobanda degli Alveari, che spiega ogni cosa detta e non detta) nella memoria dei protagonisti.
L’atmosfera del film è essenziale, perché costringe a non perdersi dietro dettagli insignificanti, ma a vivere dentro l’angoscia; il registro è surreale, la realtà che ci scorre davanti a tratti sembra illogica (ma cosa fanno quei bambini sopra i tetti delle carcasse d’auto roventi?), i tempi sembrano a volte rarefarsi (il gioco infinito ed estenuante di Sandro con il figlio, il monologo sociopatico di Carmine contro la società ingiusta dei ricchi, la formalità convenzionale dei colleghi di Cinzia sul rendimento scolastico e, soprattutto, sulla vita familiare dei bambini esaminati) e ogni momento ritrova senso solo alla fine ma anche nel momento in cui accade, senza necessari legami con le sequenze cui si lega.
(...) continua
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el_dado
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giovedì 1 marzo 2012
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ferro dilaniato
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Ruggine è un film. Un racconto; una denuncia; una favola nera in cui i protagonisti sono puri per antonomasia. Talmente innocenti da non poterli nemmeno definire eroi. Vittime ribelli, bambini soldati in un deserto di polvere rossa ferrosa, trincee di detriti per giocare e fuggire. Il deserto di case popolari e depositi di rifiuti dell'hinterland milanese degli anni 70, tuttora intatto. E poi il nemico: uno, ma forte quanto cento, impersonato da un Filippo Timi mirabile, intellettualmente (nel senso lato del termine)ed emotivamente disabile, con la sua miscela di perversi amplessi canori e successive docce immaginarie all'interno della sua auto. Ma soprattutto venerato dagli stessi che dovrebbero proteggere i loro figli, ma che accecati dalla visione distorta che la società impone rifiutano di riconoscere il Mostro che uccide sotto i loro occhi.
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Ruggine è un film. Un racconto; una denuncia; una favola nera in cui i protagonisti sono puri per antonomasia. Talmente innocenti da non poterli nemmeno definire eroi. Vittime ribelli, bambini soldati in un deserto di polvere rossa ferrosa, trincee di detriti per giocare e fuggire. Il deserto di case popolari e depositi di rifiuti dell'hinterland milanese degli anni 70, tuttora intatto. E poi il nemico: uno, ma forte quanto cento, impersonato da un Filippo Timi mirabile, intellettualmente (nel senso lato del termine)ed emotivamente disabile, con la sua miscela di perversi amplessi canori e successive docce immaginarie all'interno della sua auto. Ma soprattutto venerato dagli stessi che dovrebbero proteggere i loro figli, ma che accecati dalla visione distorta che la società impone rifiutano di riconoscere il Mostro che uccide sotto i loro occhi. Il capro espiatorio verrà come al solito designato in un emarginato locale. Ed essendo le case popolari a costruire e a dare vita alla grande città, ecco che l'ipocrisia dilaga e si espande nella metropoli e nel futuro in cui, in una fotografia blu tagliata dall'ombra in contrasto con quella rossa e profonda del passato, un paterno Stefano Accorsi, una timida e agguerrita Valeria Solarino, e uno shoccato Valerio Mastrandrea fanno i conti con fantasmi che riemergono definitivamente. La guerra si espande in "un campo lungo cinematografico" come urla nel pezzo finale Vasco brondi, in arte Le luci della centrale elettrica, autore della tagliente e brillante colonna sonora. Dilaniante come il ferro.
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diomede917
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sabato 3 settembre 2011
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il giorno di dolore che uno ha
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Tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron finalista allo Scerbanenco, Ruggine tratta un tema duro e scottante difficilmente rappresentato dal nostro cinema: la pedofilia. Rappresentando i traumi e i dolori che i grandi non riusciranno a credere.
Per Daniele Gaglianone è il suo esame di maturità non solo perchè affronta questa tematica ma lo fa con un cast che rappresenta il meglio del giovane cinema italiano.
La storia si dipana su due filoni temporali seguendo per un'intera giornata i tre protagonisti in età adulta e attraverso i loro occhi tristi veniamo catapultati in quell'estate degli anni '70 nella periferia di Torino popolata da tanti emigranti meridionali dove s'aggira l'orco ben nascosto nelle rassicuranti sembianze del Dott.
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Tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron finalista allo Scerbanenco, Ruggine tratta un tema duro e scottante difficilmente rappresentato dal nostro cinema: la pedofilia. Rappresentando i traumi e i dolori che i grandi non riusciranno a credere.
Per Daniele Gaglianone è il suo esame di maturità non solo perchè affronta questa tematica ma lo fa con un cast che rappresenta il meglio del giovane cinema italiano.
La storia si dipana su due filoni temporali seguendo per un'intera giornata i tre protagonisti in età adulta e attraverso i loro occhi tristi veniamo catapultati in quell'estate degli anni '70 nella periferia di Torino popolata da tanti emigranti meridionali dove s'aggira l'orco ben nascosto nelle rassicuranti sembianze del Dott.Boldrini il pediatra del quartiere.
Il film parte lento, forse pure troppo. Il regista sembra quasi intimidito e si affida totalmente alle doti istrioniche di Filippo Timi. Purtroppo, alla lunga, questo si rivelerà un errore. Pur non discutendo la sua bravura Timi non è Peter Lorre e con il prosequio della storia il suo personaggio rischia di scivolare nella caricatura di se stesso (come nella scena della visita al personaggio di Accorsi da piccolo).
Fortunatamente Gaglianone riesce a riprendersi il film negli ultimi intensissimi 20 minuti quando il dramma esplode in un crescendo emotivo anche grazie alle performances dei suoi interpreti siano essi adulti (da vedere la tensione provocata da Valeria Solarino nel consiglio di classe in difesa di un'alunna molestata o la disperazione di Valerio Mastandrea davanti agli usurai) che bambini (il vero valore aggiunto del film).
Rimanete anche dopo i titoli di coda perchè è lì che si vede la mano del regista...il gioco di sguardi in metrò è tutto da gustare.
Pur non essendo un brutto film possiamo dire che è la classica occasione sprecata. Un 6 e niente più.
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marezia
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lunedì 12 settembre 2011
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un gioiello da cineteca
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Pellicola che svolge più di un tema (e li elencherò) con grande equilibrio formale senza mai annoiare. Sorprende e cattura e se scatta la molla dell'immedesimazione (perché anche chi non ci è mai passato personalmente per empatia si affeziona ai suoi protagonisti) non è per una curiosità morbosa ma per il modo STRAORDINARIAMENTE elegante, suggestivo e profondo in cui il regista affronta la spinosa materia che ci offre sul piatto: la pedofilia sì ma anche il rapporto bambino - adulto, il modo di vivere la realtà dei bambini che in questo film diventano adulti (e castigatori) brandendo un'arma dopo aver giocato con la fantasia e, infine, il modo di essere adulti dopo essere stati vittime.
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Pellicola che svolge più di un tema (e li elencherò) con grande equilibrio formale senza mai annoiare. Sorprende e cattura e se scatta la molla dell'immedesimazione (perché anche chi non ci è mai passato personalmente per empatia si affeziona ai suoi protagonisti) non è per una curiosità morbosa ma per il modo STRAORDINARIAMENTE elegante, suggestivo e profondo in cui il regista affronta la spinosa materia che ci offre sul piatto: la pedofilia sì ma anche il rapporto bambino - adulto, il modo di vivere la realtà dei bambini che in questo film diventano adulti (e castigatori) brandendo un'arma dopo aver giocato con la fantasia e, infine, il modo di essere adulti dopo essere stati vittime. Anche la figura del pedofilo ha il suo perché e non è il solito laido signore che guarderesti con sospetto anche da un km ma un distinto medico oppresso da turbe che irrompono come un delirio. Gentile, sempre presente ad ogni nuova macabra scoperta, inquietante e inquietante perché interpretato da un meraviglioso Timi. Comunque benissimo TUTTI e benissimo anche l'interprete di Carmine da bambino, INCREDIBILE. Un film paragonabile a "L'amico di famiglia", che a Venezia avrebbe senz'altro meritato qualcosina.
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