Opera prima presentata al festival di Cannes 2011, quello che ha consacrato Habemus papam di Moretti nella Quinzaine des Réalisateurs, Corpo celeste costituisce un interessante esordio della attrice-regista Alice Rohrwacher
E’ un film che dà fiducia e speranza nel cinema italiano, che sa affrontare con coraggio delicate questioni quali possono essere la crescita adolescenziale e il cammino verso la maturità contestualizzandolo a una realtà povera. degradata e moralmente squallida del sud Italia, un territorio ahimè dimenticato,spazzato dalla mafia, dagli abusi edilizi e purtroppo dall’ignoranza.
Ci troviamo al limite della penisola, nel punto dove il sud sembra finire specchiandosi nell’azzurro mare cristallino della costa sicula, in uno scenario turistico stupendo con panorami e paesini dimenticati immersi nella cornice caratteristica mediterranea. Dinanzi a quel mare così vicino ma per converso inviolabile, si svolge il cammino di formazione di Marta (Yile Vianello) “gettata” dal profondo Nord della Svizzera nel ancor più profondo Sud di Reggio Calabria dove ha trascorso la sua infanzia, luogo irenico ma confuso, detrito inviolabile della sua esistenza.
Il ritorno non ha nulla di proustiano ma, al contrario è ricerca e soprattutto contemplazione. In quella parrocchia di Reggio Calabria dove Marta dovrà frequentare l’importante corso di catechismo per la preparazione alla cresima, spartiacque tra infanzia e maturità nell’accettazione del corpo del Signore, Marta, da spigliata ragazzina comprende e capisce, osserva la sua nuova esistenza da partecipe passivo in terza persona subendo conseguenze e azioni imposte dall’alto: il mare di immondizia dell’oramai secco fiume tramutato a discarica, le litanie paesane, l’abusivismo edilizio e soprattutto la visione “disgregata” della chiesa.
Una chiesa che da luogo di raccoglimento delle anime e di aiuto verso il prossimo è amministrata a mo’ di azienda dal parroco che si preoccupa piuttosto della salvezza delle sue anime smarrite al più “prosaico” e quotidiano presente, promovendo e recuperando i voti elettorali dei fedeli nel suoi peripatetici giri tra le casette della città. Attorno a questa gretta figura amministratrice politica del presente, si muovono i fervori religiosi delle catechiste, i desueti canti gregoriani ora sostituiti dal refrain “Mi sintonizzo con Dio”, grottesco atto di fede verso l’onnipotente, riducendo la Cresima a un atto vuoto di ogni significato che dovrebbe avvicinare al mistero della creazione finendo per sollevare dubbi sulle imposizioni, il radicamento dei valori (sacri o profani) e il modo di trasmetterli.
Con la sua precisa macchina da presa che scandaglia con profondità le sfaccettatura dell’anima della giovane Marta, Rohrwacher analizza con taglio realista l’ambiente della comunità di provincia, non esaltandone lo spirito grottesco quanto la veridicità di fatti e azioni, non cercando quindi il compatimento nello spettatore quanto la sua riflessione in una storia di formazione silenziosa e dubbiosa senza prediche che evita soprattutto l’anticlericalismo ma invita alla discussione.
Con frequenti primi piani che scavano nell’intimità di Marta, la regista ci guida in un cammino contorto, in un amalgama di spiritualità e sentimenti contrastanti, grazie a immagini talvolta forti (l’attacco di menopausa, lo schiaffo della catechista e il glaciale primo piano di Marta) o intime (la figura del prete eremita in uno sperduto paesino di collina portatore del vero sentimento di umiltà cristiana) che comunicano il disorientamento spirituale della pubertà. Marta assurge a simbolo della scoperta del senso divino, della ricerca di sé ed il suo smarrimento ben trasposto sullo schermo rimane purtroppo invischiato tra le trame di un didascalismo un po’ troppo ridondante che la regista enfatizza in più occasioni (estenuante ricerca degli emblemi, rigore stilistico e provincialismo). Un esordio alla Dardenne. Ben vengano!
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