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lucky italian movies
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domenica 15 marzo 2020
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il papà di giovanna è un uomo d'altri tempi
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Un fedele affresco di Bologna a cavallo della seconda guerra mondiale fa da cornice ad un padre modello che dedica la sua vita alla figlia. Michele va a trovare spesso Giovanna in carcere e poi in manicomio, parlandole sempre bene della mamma anche se quest'ultima non vuole più saperne di lei e non essendo mai stata innamorata del marito, finisce per andarsene con altri uomini. Finita la guerra e scontata da Giovanna la misura di sicurezza, padre e figlia tornano nella vecchia casa di famiglia e continuano il loro rapporto di amore, complicità e tenerezza. Un film intenso dunque, un rapporto forte tra padre e figlia nel periodo più difficile della storia dell'umanità e con di mezzo anche la difficile e commovente condizione degli internati nei vecchi manicomi.
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Un fedele affresco di Bologna a cavallo della seconda guerra mondiale fa da cornice ad un padre modello che dedica la sua vita alla figlia. Michele va a trovare spesso Giovanna in carcere e poi in manicomio, parlandole sempre bene della mamma anche se quest'ultima non vuole più saperne di lei e non essendo mai stata innamorata del marito, finisce per andarsene con altri uomini. Finita la guerra e scontata da Giovanna la misura di sicurezza, padre e figlia tornano nella vecchia casa di famiglia e continuano il loro rapporto di amore, complicità e tenerezza. Un film intenso dunque, un rapporto forte tra padre e figlia nel periodo più difficile della storia dell'umanità e con di mezzo anche la difficile e commovente condizione degli internati nei vecchi manicomi. Da vedere per riflettere su un importante pezzo della nostra storia.
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chiarialessandro
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giovedì 25 giugno 2009
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una tacca in più.
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Nei film western capita di vedere il pistolero di turno che aggiunge una tacca nel calcio della sua pistola a ricordo di un altro morto ammazzato; anche a Pupi Avati capita spesso di aggiungere un tassello all’elenco delle opere da ricordare. “Il papà di Giovanna” è un lavoro che cerca di aprire come un bisturi i rapporti familiari tra Silvio Orlando (padre), Francesca Neri (madre) ed Alba Rohrwacher (figlia), affondando soprattutto nella dicotomia fra accettazione e rifiuto: la figlia accetta sia il padre che la madre ma contemporaneamente rifiuta (per gelosia?) quella piccolissima parte della vita che la madre si permette di concedere alla spensieratezza, al divertimento e all’allegria (la crisi epilettica non sembra casuale).
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Nei film western capita di vedere il pistolero di turno che aggiunge una tacca nel calcio della sua pistola a ricordo di un altro morto ammazzato; anche a Pupi Avati capita spesso di aggiungere un tassello all’elenco delle opere da ricordare. “Il papà di Giovanna” è un lavoro che cerca di aprire come un bisturi i rapporti familiari tra Silvio Orlando (padre), Francesca Neri (madre) ed Alba Rohrwacher (figlia), affondando soprattutto nella dicotomia fra accettazione e rifiuto: la figlia accetta sia il padre che la madre ma contemporaneamente rifiuta (per gelosia?) quella piccolissima parte della vita che la madre si permette di concedere alla spensieratezza, al divertimento e all’allegria (la crisi epilettica non sembra casuale). La madre rifiuta la figlia (almeno sino al finale aperto in cui ci viene lasciata intravedere la possibilità di ricomposizione del nucleo originario), accerchiata e plagiata dal padre che (a sua volta) la accetta pur rifiutando di accettarne le menomate condizioni psichiche sino al punto da spingere un vuoto rubacuori al suo falso corteggiamento. La madre accetta poi il matrimonio ma rifiuta di amare il marito che le concederà però la possibilità di esprimere i suoi sentimenti con l’amico di famiglia (stupendo il gioco di sguardi che, silenzioso, ci avvicina alla loro reciproca attrazione). Grandissimo il popolo degli attori: Orlando si riconferma magistrale (in tutti i sensi, dato che gli è affidata la parte di un professore), Alba “cresce” di film in film (non solo come età ma soprattutto come capacità interpretativa), Francesca viene sapientemente usata non tanto per le sue inossidabili curve quanto piuttosto per l’espressività, Ezio affronta in modo convincente un ruolo inedito (mica vorrà diventare un secondo Abatantuono?). Dopo tanti elogi una piccola critica che non inficia certo la validità complessiva del film: la scena della fuga di Greggio che riesce a seminare un gruppo di inseguitori armati dopo essere stato legato con le mani dietro la schiena e ferito gravemente, mi sembra una scena assurda; forse sarebbe stato meglio eliminarla. Un ‘ultima annotazione che un critico professionista probabilmente non farebbe: tra l’essere e l’apparire ritengo più importante l’essere ma, nel momento in cui il tuo lavoro consiste fondamentalmente nell’apparire, la cura dell’aspetto esteriore diventa importante non solo per te stesso ma anche per tutti gli altri che ti guardano, proprio per evitare uno spiacevole senso di trascuratezza; non penso che a Silvio Orlando manchino il tempo od i soldi per farsi sistemare la bocca.
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paride86
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martedì 3 febbraio 2009
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buono ma gli manca qualcosa
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"Il papà di Giovanna" è, secondo me, un film riuscito a metà.
Avati si avvale delle ottime interpretazioni di Silvio Orlando e di Alba Rohrwacher, ma alla fine gli eventi che propone si incastrano in maniera piuttosto insignificante, cioè non vanno a parare da nessuna parte. Mi ha deluso soprattutto il finale, dal quale mi sarei aspettato un qualcosa in più. Insomma, il film tocca tanti argomenti (la guerra, l'omicidio, l'amore di un padre, l'insoddisfazione di una madre, le esecuzioni partigiane) ma non ne approfondisce nessuno e alla fine l'unica cosa che rimane è il ritratto di Michele: il regista vuole dimostrare che, pur essendo un perdente, questo professore ha un'anima candida e volenterosa.
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"Il papà di Giovanna" è, secondo me, un film riuscito a metà.
Avati si avvale delle ottime interpretazioni di Silvio Orlando e di Alba Rohrwacher, ma alla fine gli eventi che propone si incastrano in maniera piuttosto insignificante, cioè non vanno a parare da nessuna parte. Mi ha deluso soprattutto il finale, dal quale mi sarei aspettato un qualcosa in più. Insomma, il film tocca tanti argomenti (la guerra, l'omicidio, l'amore di un padre, l'insoddisfazione di una madre, le esecuzioni partigiane) ma non ne approfondisce nessuno e alla fine l'unica cosa che rimane è il ritratto di Michele: il regista vuole dimostrare che, pur essendo un perdente, questo professore ha un'anima candida e volenterosa. Niente di nuovo all'orizzonte, insomma (anzi, essere professore negli anni '30 era una situazione molto molto fuori dal comune, quindi perché Michele dovrebbe essere così straccione e mediocre come viene proposto nel film?).
Per quanto riguarda Ezio Greggio e Francesca Neri...diciamo pure che se la sono cavata, ma il merito è più del talento di Avati che delle loro reali capacità interpretative.
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paolo pasetti
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lunedì 22 settembre 2008
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lotta di classe a colpi di rasoio
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A volte, anche con i personaggi di film o romanzi, è necessario fare un po’ di conti. Nella Bologna del 1938, Giovanna ha 17 anni; dunque è nata nel 1921. È, praticamente, una “coetanea” del fascismo. Michele Casali, padre di Giovanna, è un insegnante di disegno, borghese piccolissimo, chiuso nella sua infinita mediocrità ma intimamente velleitario e irrazionale. Giovanna cresce nell’illusione (l’impossibilità?) di essere normale, di essere come le altre, come le sue compagne del liceo-bene di Bologna. Ma Giovanna è brutta, sporca e – presto – sarà anche cattiva. Come ci ha insegnato l’antipsichiatria, la follia non è altro che un cortocircuito logico, un sostituirsi del gesto al pensiero, un’”altra logica” che corre parallela a quella comune, corrente, normale.
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A volte, anche con i personaggi di film o romanzi, è necessario fare un po’ di conti. Nella Bologna del 1938, Giovanna ha 17 anni; dunque è nata nel 1921. È, praticamente, una “coetanea” del fascismo. Michele Casali, padre di Giovanna, è un insegnante di disegno, borghese piccolissimo, chiuso nella sua infinita mediocrità ma intimamente velleitario e irrazionale. Giovanna cresce nell’illusione (l’impossibilità?) di essere normale, di essere come le altre, come le sue compagne del liceo-bene di Bologna. Ma Giovanna è brutta, sporca e – presto – sarà anche cattiva. Come ci ha insegnato l’antipsichiatria, la follia non è altro che un cortocircuito logico, un sostituirsi del gesto al pensiero, un’”altra logica” che corre parallela a quella comune, corrente, normale. A un certo punto Giovanna, male-educata dalle ambizioni sbagliate del padre, si accorge drammaticamente che la sua “normalità” era pura finzione. Il ragazzo che lei amava in realtà “parlava” con lei solo per rubarle i compiti e, meschinamente, per corrompere il padre il cui voto era determinante per il suo futuro scolastico. Parlava con lei ma – come sempre e stato e sempre sarà – si infrattava in palestra con ben altra ragazza. Quella sì, borghese sul serio, figlia e nipote di fascistoni, destinata alla vita “vera”, quella dei soldi, del potere e della bellezza. Ed è qui che entra in scena la follia, con la sua logica spietata, che non ammette eccezioni o deroghe.
Nella mente malata di Giovanna, attraverso il suo delitto, si anticipa il delitto collettivo che arriverà presto: prima con le leggi razziali (guarda caso, proprio nel 1938...), poi con l’esplodere della guerra. L’assassinio compiuto da Giovanna è, in definitiva, una sorta di “modello in miniatura” di quello che sarà il grande assassinio di massa compiuto dal fascismo, prima ai danni degli ebrei (ma anche comunisti, zingari, omosessuali…), poi ai danni di tutti.
Nella testa di Giovanna si agita quella violenza niente affatto cieca, del tutto premeditata, che di lì a poco si scatenerà a livello di massa nelle deportazioni e nella guerra.
La dis-ragione di Giovanna si nutre di considerazioni corrette: la presenza, sotterranea ma incancellabile, del conflitto di classe. Quel conflitto di classe che il fascismo aveva cercato di cancellare dalla storia e dalle coscienze, fingendosi regime a-classista, con le sue trombonate di “popoli” e Imperi. Partendo da premesse giuste (il conflitto di classe, che lei rappresenta fisicamente, oltre che socialmente), Giovanna trae conclusioni sbagliatissime: l’omicidio. Anziché, come hanno fatto molti suoi coetanei, andare sulle montagne unendosi a qualche brigata partigiana, Giovanna ha preferito la strada più breve per “sanare” il conflitto: due colpi di rasoio alla gola della sua “avversaria”. Ma, come sappiamo, per prendere la via delle montagne serve un requisito fondamentale: essere coscienti di ciò che si è. Giovanna non lo è, non può esserlo. D’altra parte, come condannarla per questo? Oggi, il sottoproletariato urbano preferisce recarsi ogni domenica a spaccare qualche testa negli stadi, piuttosto che organizzare un faticosissimo conflitto sociale. Senza coscienza di sé, le “energie negative” della psicopatologia sociale conoscono un solo linguaggio per esprimersi: la violenza. Ma – direbbe la “signora mia” di Arbasino – piuttosto di una Rivoluzione è sempre meglio qualche testa rotta e qualche piccolo pogrom, che diamine!
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[+] masturbazioni celebrali
(di robert1948)
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