Il grande capo |
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Un film di Lars von Trier.
Con Jens Albinus, Peter Gantzler, Fridrik Thor Fridriksson, Benedikt Erlingsson, Iben Hjejle.
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Titolo originale Direktøren for det hele.
Commedia,
durata 99 min.
- Danimarca, Svezia 2006.
- Lucky Red
uscita venerdì 5 gennaio 2007.
MYMONETRO
Il grande capo
valutazione media:
3,15
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Essere cattivi va bene, ma solo a metà!di claudioFeedback: 0 |
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martedì 9 gennaio 2007 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Tipica commedia da interni, molto teatrale, "il grande capo" non delude la sommaria presentazione che la voce narrante del regista, ad inizio rappresentazione, dà del film (forse per un senso di fedeltà al "dogma" di verità) al pubblico in attesa. E' una godevolissima commedia, con una trama ben congegnata, attori-macchiette bravi (bravissimo va al protagonista Jens Albinus), buono il ritmo e il colpo di coda finale è splendido. Il film, oltre ad essere un'allegoria della condizione miserrima in cui versano gran parte delle attuali imprese guidate dalle multinazionali per cui i dipendenti non sanno mai chi siano i "capi" e in base a quale criterio (oltre quello del profitto) prendano le varie decisioni, è anche una spietata analisi sull'incapacità e sulla debolezza degli esseri umani ad essere, cinicamente, razionalmente, pedissequamente, laicamente individialisti accettandone tutte le conseguenze di solitudine e angoscia che da ciò derivano. Il senso di colpa è come un'ombra che volteggia cupa sulla testa del capo reale che mascherandosi dietro un invisibile capo, evidentemente, non sa accettare l'idea di rendere se stesso una sorta di perfetto individualista dedito al profitto. Sa che alienandosi la possibilità di avere rapporti autentici di amicizia (che, si sa, comporterebbero anche lealtà, verità, dialogo reale, ecc.) con gli altri lavoratori, sprofonderebbe nel brutale mondo guidato dai "chip", codificato dal linguaggio incomprensibile della tecnologia, in nome dell'esclusivo guadagno. Essendo perciò incapace di esercitare a pieno la "volontà di potenza", riesce solo ad impiantare la classica finzione (che una volta si sarebbe codificata come "piccolo borghese", ma che invece oggi appartiene un po' a tutte le classi sociali, quando esse si riescono a distinguere...) e a propagare la diffusa retorica aziendale del finto lavoro di gruppo, dei vuoti abbracci motivazionali, dell'"essere una squadra". Insomma: solo momenti falsi e convenzionali sono quelli che circondano il nostro mercato quotidiano e l'ambiente lavorativo. Ma la macchinazione deve procedere e von Trier chiama in scena il paladino dell'autenticità (che poi è paradossalmente un attore) il quale avrà l'onere contrattuale di assumere su di sé il ruolo di capro espiatorio. In un universo reale di finzioni, le contraddizioni esplodono in maniera imprevedibile e surreale, lasciando ai posteri l'abilità e il dovere del giudizio. Unica e fastidiosa pecca quell'idea, piuttosto balsana, di voler mescolare l'avanguardia con il neocapitalismo in un tentativo innocuo e piuttosto naif di affidare una parte delle inquadrature al "caso" del computer collegato alla macchina da presa, con il risultato di avere una macchina da presa fissa, comunque ben posizionata, che spesso taglia gli attori proprio mentre recitano. Se questa avrebbe dovuto essere una sorta di messa in scena di un contrappasso per cui tale il mondo reale: falso e dimidiato dai sensi di colpa, quale il film: personaggi tagliati, inquadrature spesso malfatte e casuali; oppure una sorta di polemica "fine del cinema" da ottenersi mediante un semi-svilimento dell'immagine (che è il caposaldo su cui si regge l'arte cinematografica), non saprei dire con certezza. Oseri solo aggiungere che in questo carattere di incertezza e di parzialità (il film risulta comunque leggibilissimo e ben montato) il risultato è pessimo.
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