osteriacinematografo
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mercoledì 15 febbraio 2012
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la farsa rivelatrice di von trier
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Lars von Trier non si toglie nemmeno il gusto della commedia. E lo fa a modo suo, naturalmente, realizzando un’opera grottesca, spietata, che analizza senza filtro e con amara ironia i rapporti interpersonali: ne “Il grande capo”, l’indagine è ambientata nel mondo del lavoro, dove gli interessi economici schiacciano inesorabilmente ogni altro tipo di valutazione.
Una ditta di informatica danese sta per essere ceduta a un magnate islandese.
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Lars von Trier non si toglie nemmeno il gusto della commedia. E lo fa a modo suo, naturalmente, realizzando un’opera grottesca, spietata, che analizza senza filtro e con amara ironia i rapporti interpersonali: ne “Il grande capo”, l’indagine è ambientata nel mondo del lavoro, dove gli interessi economici schiacciano inesorabilmente ogni altro tipo di valutazione.
Una ditta di informatica danese sta per essere ceduta a un magnate islandese. Ravn è il proprietario occulto dell’azienda, ma non ha mai rivelato la sua identità, fingendosi mero portavoce del capo; gli islandesi esigono però di trattare con il proprietario in persona per la vendita in oggetto, e Ravn è costretto a ingaggiare un attore per sostenere la parte di Grande Capo.
Kristoffer, attore disoccupato con la fissa per il drammaturgo Gambini, ha un approccio spaesato e confuso al ruolo, tanta è la singolarità del gruppo direttivo della ditta e dei suoi componenti, caratterizzati da tendenze estreme e spassose: c’è chi è ossessionato e reso aggressivo dall’uggia autunnale della campagna danese, chi desidera concedersi sessualmente al presunto capo e chi lo vuole sposare, chi sussulta e piange ogni volta che una fotocopiatrice si aziona, chi ha bisogno di continui e patetici gesti d’affetto.
Kristoffer dovrà impegnarsi per studiare a fondo i co-protagonisti della storia, fino a comprendere come siano in realtà tutti strumenti inconsapevoli di Ravn, che finge di essere il loro migliore amico e poi segretamente medita di licenziarli e di attribuirsi in esclusiva il merito di un loro prodotto informatico.
Il capo Ravn rivelerà la sua vera faccia d’uomo cinico e privo di scrupoli, in grado di realizzare grandi profitti sfruttando il talento di queste persone e il loro investimento iniziale; l’altro Ravn, l’inoffensivo impiegato, il buon amico sempre disponibile a un abbraccio e a una parola di conforto, inizierà a vacillare sotto i colpi inferti in controffensiva dall’attore. Si, perché Kristoffer, lungo il sentiero tracciato da Von Trier, entra nella parte a tal punto che l’attore prevale sull’uomo, e, attraverso un serie di considerazioni tanto contraddittorie da costruire –infine e per negazione- una struttura coerente, terrà in pugno il suo pubblico fino all’ultimo istante, riscattando quel palcoscenico smarrito a livello professionale.
Il film procede per dialoghi incalzanti e fittissimi, con la voce di von Trier che saltuariamente irrompe sulla scena, fra gli scatti improvvisi e rivelatori dei personaggi coinvolti; la telecamera agisce senza operatore e in funzionalità random, cambiando e tagliando inquadratura a sua esclusiva discrezione (tecnica meglio nota come “Automavision”).
Il film può risultare difficoltoso di primo acchito, perché è necessario produrre uno sforzo per calarsi in quest’ambientazione estrema e teatralizzata, ma, una volta superata la decompressione percettiva, “Il grande capo” si rivela un’opera geniale, una lente di ingrandimento sulle manie, le debolezze, le viltà umane, che diverte, incuriosisce e a tratti angoscia lo spettatore in un tourbillon emotivo che non concede pause e si risolve in un finale imprevisto.
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claudio
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martedì 9 gennaio 2007
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essere cattivi va bene, ma solo a metà!
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Tipica commedia da interni, molto teatrale, "il grande capo" non delude la sommaria presentazione che la voce narrante del regista, ad inizio rappresentazione, dà del film (forse per un senso di fedeltà al "dogma" di verità) al pubblico in attesa. E' una godevolissima commedia, con una trama ben congegnata, attori-macchiette bravi (bravissimo va al protagonista Jens Albinus), buono il ritmo e il colpo di coda finale è splendido. Il film, oltre ad essere un'allegoria della condizione miserrima in cui versano gran parte delle attuali imprese guidate dalle multinazionali per cui i dipendenti non sanno mai chi siano i "capi" e in base a quale criterio (oltre quello del profitto) prendano le varie decisioni, è anche una spietata analisi sull'incapacità e sulla debolezza degli esseri umani ad essere, cinicamente, razionalmente, pedissequamente, laicamente individialisti accettandone tutte le conseguenze di solitudine e angoscia che da ciò derivano.
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Tipica commedia da interni, molto teatrale, "il grande capo" non delude la sommaria presentazione che la voce narrante del regista, ad inizio rappresentazione, dà del film (forse per un senso di fedeltà al "dogma" di verità) al pubblico in attesa. E' una godevolissima commedia, con una trama ben congegnata, attori-macchiette bravi (bravissimo va al protagonista Jens Albinus), buono il ritmo e il colpo di coda finale è splendido. Il film, oltre ad essere un'allegoria della condizione miserrima in cui versano gran parte delle attuali imprese guidate dalle multinazionali per cui i dipendenti non sanno mai chi siano i "capi" e in base a quale criterio (oltre quello del profitto) prendano le varie decisioni, è anche una spietata analisi sull'incapacità e sulla debolezza degli esseri umani ad essere, cinicamente, razionalmente, pedissequamente, laicamente individialisti accettandone tutte le conseguenze di solitudine e angoscia che da ciò derivano. Il senso di colpa è come un'ombra che volteggia cupa sulla testa del capo reale che mascherandosi dietro un invisibile capo, evidentemente, non sa accettare l'idea di rendere se stesso una sorta di perfetto individualista dedito al profitto. Sa che alienandosi la possibilità di avere rapporti autentici di amicizia (che, si sa, comporterebbero anche lealtà, verità, dialogo reale, ecc.) con gli altri lavoratori, sprofonderebbe nel brutale mondo guidato dai "chip", codificato dal linguaggio incomprensibile della tecnologia, in nome dell'esclusivo guadagno. Essendo perciò incapace di esercitare a pieno la "volontà di potenza", riesce solo ad impiantare la classica finzione (che una volta si sarebbe codificata come "piccolo borghese", ma che invece oggi appartiene un po' a tutte le classi sociali, quando esse si riescono a distinguere...) e a propagare la diffusa retorica aziendale del finto lavoro di gruppo, dei vuoti abbracci motivazionali, dell'"essere una squadra". Insomma: solo momenti falsi e convenzionali sono quelli che circondano il nostro mercato quotidiano e l'ambiente lavorativo. Ma la macchinazione deve procedere e von Trier chiama in scena il paladino dell'autenticità (che poi è paradossalmente un attore) il quale avrà l'onere contrattuale di assumere su di sé il ruolo di capro espiatorio. In un universo reale di finzioni, le contraddizioni esplodono in maniera imprevedibile e surreale, lasciando ai posteri l'abilità e il dovere del giudizio. Unica e fastidiosa pecca quell'idea, piuttosto balsana, di voler mescolare l'avanguardia con il neocapitalismo in un tentativo innocuo e piuttosto naif di affidare una parte delle inquadrature al "caso" del computer collegato alla macchina da presa, con il risultato di avere una macchina da presa fissa, comunque ben posizionata, che spesso taglia gli attori proprio mentre recitano. Se questa avrebbe dovuto essere una sorta di messa in scena di un contrappasso per cui tale il mondo reale: falso e dimidiato dai sensi di colpa, quale il film: personaggi tagliati, inquadrature spesso malfatte e casuali; oppure una sorta di polemica "fine del cinema" da ottenersi mediante un semi-svilimento dell'immagine (che è il caposaldo su cui si regge l'arte cinematografica), non saprei dire con certezza. Oseri solo aggiungere che in questo carattere di incertezza e di parzialità (il film risulta comunque leggibilissimo e ben montato) il risultato è pessimo.
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darjus
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mercoledì 11 aprile 2007
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ecco chi è il vero grande c
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Von Trier, si sa, ama maramaldeggiare. E così costruisce una commedia divertita e divertente, in cui l’interazione con lo spettatore (in passato preso in giro, incantato, provocato o torturato sadicamente) si fa sfacciata, con il voice-off del regista che introduce, interrompe e chiude. Ma, soprattutto, suggerisce: il regista danese, infatti, si raccomanda di non riflettere sul film perché tanto si tratta solo di una commedia. L’ironia, però, è quanto mai palese. Consapevole della forza tagliente dell’umorismo satirico, infatti, Von Trier non perde occasione di farsi beffe delle piccolezze degli uomini, del capitalismo e delle sue dinamiche, suggerendo, questa volta in modo implicito, diverse riflessioni: l'esigenza di essere accettati e amati in contrapposizione alla necessità di prendere decisioni dolorose in nome del profitto (il vero grande C), la necessità di occultare, finché possibile, l'autorità, che incute obbedienza per il solo fatto di non essere visibile, l'inutilità di una gerarchia piramidale di fronte alla maggiore efficienza di una auto-gestione orizzontale.
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Von Trier, si sa, ama maramaldeggiare. E così costruisce una commedia divertita e divertente, in cui l’interazione con lo spettatore (in passato preso in giro, incantato, provocato o torturato sadicamente) si fa sfacciata, con il voice-off del regista che introduce, interrompe e chiude. Ma, soprattutto, suggerisce: il regista danese, infatti, si raccomanda di non riflettere sul film perché tanto si tratta solo di una commedia. L’ironia, però, è quanto mai palese. Consapevole della forza tagliente dell’umorismo satirico, infatti, Von Trier non perde occasione di farsi beffe delle piccolezze degli uomini, del capitalismo e delle sue dinamiche, suggerendo, questa volta in modo implicito, diverse riflessioni: l'esigenza di essere accettati e amati in contrapposizione alla necessità di prendere decisioni dolorose in nome del profitto (il vero grande C), la necessità di occultare, finché possibile, l'autorità, che incute obbedienza per il solo fatto di non essere visibile, l'inutilità di una gerarchia piramidale di fronte alla maggiore efficienza di una auto-gestione orizzontale. Ma la filosofia del Grande Capo è la stessa del contraddittorio Von Trier, che usa la commedia per farsi accettare e per nascondere il vero se stesso e (la sua visione de) le misere tragedie dei piccoli umani. Tutte le inquadrature (molte delle quali bizzarre) sono state scelte arbitrariamente da un programma computerizzato inventato dallo stesso regista, che, in tal modo, è riuscito a rendere comici i tempi dell'azione mantenendo quasi sempre fissa la camera. Un’ultima annotazione: a dispetto di tutto, si ride. E non è poco. *** su ****
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piernelweb
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giovedì 31 maggio 2007
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piccoli capi e grandi subalterni
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Abbandonato il mondo sofferente di Dogville e Manderlay, Lars von Trier si concede ai piaceri della commedia in questo film low-budget interamente realizzato in patria con attori Danesi. La grottesca sceneggiatura ben si amalgama con la stramberia dei personaggi tra i quali spicca, ovviamente, il protagonista principale Kristoffer. Von Trier attraverso la caratterizzazione del personaggio (attore fallito, ma lui non lo sa) ironizza piacevolmente (e se ne sentiva davvero il bisogno) con le fissazioni autoriali e artistiche che troppo spesso prendono il sopravvento sui divi del set, registi e attori che siano. Alcuni passaggi superflui, ripetitivi e manieristici nella parte centrale, e qualche baco nel software Automavision@ che autogestisce la fotografia non inficiano granchè la qualità di "Il Grande Capo" che riserva il meglio nell'inatteso ed esilarante finale.
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Abbandonato il mondo sofferente di Dogville e Manderlay, Lars von Trier si concede ai piaceri della commedia in questo film low-budget interamente realizzato in patria con attori Danesi. La grottesca sceneggiatura ben si amalgama con la stramberia dei personaggi tra i quali spicca, ovviamente, il protagonista principale Kristoffer. Von Trier attraverso la caratterizzazione del personaggio (attore fallito, ma lui non lo sa) ironizza piacevolmente (e se ne sentiva davvero il bisogno) con le fissazioni autoriali e artistiche che troppo spesso prendono il sopravvento sui divi del set, registi e attori che siano. Alcuni passaggi superflui, ripetitivi e manieristici nella parte centrale, e qualche baco nel software Automavision@ che autogestisce la fotografia non inficiano granchè la qualità di "Il Grande Capo" che riserva il meglio nell'inatteso ed esilarante finale. Von Trier pone bene gli accenti sulle più diffuse malattie contemporanee: divismo, egocentrismo, immaturità ed egoismo confezionando una pellicola che è molto più pungente di quel che sembra.
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linodigianni
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mercoledì 16 febbraio 2011
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un film che piace a uno su dieci
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un film che smonta il meccanismo
della commedia naturalistica
introducendo beckett ne teatro di Ibsen
Bello, godibile, divertente
a patto di essere cinefili colti
e dotati di senso di umorismo.
Consigliato
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ronks
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martedì 23 gennaio 2007
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lars... sempre tra teatro e verosimile
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LA TEATRALITA' DEI PERSONAGGI NELLA LORO VARIETA' DI ESSERE, DI RELAZIONARSI CON SE STESSI ED I COLLEGHI DI UFFICIO, TRA FORTI REAZIONI E REMISSIONI, IN UN TIPICO ATTEGGIAMENTO SCANDINAVO, VA FORTEMENTE A RICORDARE IL PRECEDENTE LAVORO idioti, MA QUELLO CHE PARTICOLARMENTE COLPISCE E' L'EGO CHE SI PERCEPISCE NEI PROTAGONISTI, FINO AD EMERGERE TRIONFANTE NEL FINALE... LA VERIDICITA' STA NELL'ETICA QUOTIDIANAMENTE CALPESTATA, SEPPUR LATENTE NELLE BUONE INTENZIONI, COMUNQUE DISPOSTI A SCAVALCARLA PUR DI ESSERE PRESI IN CONSIDERAZIONE.... E FORSE STA QUI LA COMMEDIA!
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enrico omodeo salè
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martedì 15 febbraio 2011
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lars colpisce ancora
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"Il grande capo" di Lars Von Trier (Dan '06): un lucido divertissement sul mondo aziendale iperglobalizzato, dove un finto "grande capo" appare dopo anni di presenza virtuale, assoldato dal vicepresidente dell'azienda che vuole vendere tutto agli islandesi e licenziare i lavoratori. Graffiante, ironico e ovviamente pieno di inquadrature che farebbero inorridire gli insegnanti delle scuole di cinema. Buona la prova degli attori. Abuso godardiano di jump cut.
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"Il grande capo" di Lars Von Trier (Dan '06): un lucido divertissement sul mondo aziendale iperglobalizzato, dove un finto "grande capo" appare dopo anni di presenza virtuale, assoldato dal vicepresidente dell'azienda che vuole vendere tutto agli islandesi e licenziare i lavoratori. Graffiante, ironico e ovviamente pieno di inquadrature che farebbero inorridire gli insegnanti delle scuole di cinema. Buona la prova degli attori. Abuso godardiano di jump cut. Il grande Lars colpisce ancora.
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stefanocapasso
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venerdì 16 maggio 2014
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potere e approvazione
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Lars Von Trier in questa commedia di stampo decisamente teatrale compie una indagine ironica sul rapporto tra regista e attore, sul rispettivo bisogni di sentirsi importante, sui loro vezzi e su come usano il loro potere per condizionando il percorso di una messa in scena.
In questo caso i ruoli sono traslati in quelli di un capo di un azienda informatica, che è sempre rimasto in incognito per risultare amabile agli occhi dei dipendenti, ed un attore assoldato per interpretare la figura del capo che decide di vendere l'azienda ed affrontare quindi i dipendenti.
In un continuo di equivoci e ribaltamento di ruoli, i due portano avanti un balletto che li vede al tempo stesso desiderosi di esercitare il proprio potere e al tempo stesso di essere approvati dalla comunità.
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Lars Von Trier in questa commedia di stampo decisamente teatrale compie una indagine ironica sul rapporto tra regista e attore, sul rispettivo bisogni di sentirsi importante, sui loro vezzi e su come usano il loro potere per condizionando il percorso di una messa in scena.
In questo caso i ruoli sono traslati in quelli di un capo di un azienda informatica, che è sempre rimasto in incognito per risultare amabile agli occhi dei dipendenti, ed un attore assoldato per interpretare la figura del capo che decide di vendere l'azienda ed affrontare quindi i dipendenti.
In un continuo di equivoci e ribaltamento di ruoli, i due portano avanti un balletto che li vede al tempo stesso desiderosi di esercitare il proprio potere e al tempo stesso di essere approvati dalla comunità. Gli impiegati, che fanno da spettatori, di volta in volta si schierano dalla parte del buono del momento.
Film che si basa su una intelligente scrittura, scandita da dialoghi pressoche continui, che rendono la sua fruizione poco agevole per un ambientazione cinematografica, perdendo la capacità di penetrate nel tessuto sociale raccontato.
E' comunque un lavoro interessante che con un esercizio di stile ritaglia e descrive un microcosmo di una comunità, quella di un gruppo di lavoro, dove le relazioni esplicite e quelle segrete prendono pieghe spesso imprevedibili
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gianmaria s
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mercoledì 30 aprile 2008
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stravolge i canoni della commedia americana
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LA locandina recita: "Una commedia di Lars Von Trier" e in effetti tanto basta a fare notizia. Dopo i due capolavori d'arte drammatica che sono Dogville e Manderlay Lars Von Trier firma questa commedia che definire classica sarebbe una bestemmia.
Ovviamente stravolge i canoni della commedia americana, trasformandola con tocchi genialoidi e para-filmici in un prodotto atipico e riuscito.
Parla di un'azienda informatica dove il capo non ha il coraggio di farsi vedere e assume un attore per ricoprire questo ruolo... risulta molto divertente nei suoi dialoghi fitti e privi di sovrastrutture. Non ci sono musiche o particolari scenografie e gli attori sono tutti danesi. Per me è uno dei migliori film visti sullo schermo nel 2006 se non fosse per il finale un po' troppo prolungato.
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LA locandina recita: "Una commedia di Lars Von Trier" e in effetti tanto basta a fare notizia. Dopo i due capolavori d'arte drammatica che sono Dogville e Manderlay Lars Von Trier firma questa commedia che definire classica sarebbe una bestemmia.
Ovviamente stravolge i canoni della commedia americana, trasformandola con tocchi genialoidi e para-filmici in un prodotto atipico e riuscito.
Parla di un'azienda informatica dove il capo non ha il coraggio di farsi vedere e assume un attore per ricoprire questo ruolo... risulta molto divertente nei suoi dialoghi fitti e privi di sovrastrutture. Non ci sono musiche o particolari scenografie e gli attori sono tutti danesi. Per me è uno dei migliori film visti sullo schermo nel 2006 se non fosse per il finale un po' troppo prolungato.
Il film come già detto è una commedia e ne rispetta in qualche modo i canoni di divertimento e leggerezza, ma tra le righe si scorge una sottile critica o valutazione dello stato dell'economia e delle realtà aziendali, spesso eteree e inconsistenti, oltrechè della vacuità della leadership.
Non è un film facile (anche se molto più facile di Dogville) ma riserva delle piacevoli sorprese e lascia soddisfatti anche i non-cinefili che comunque abbiano una buona dose di intelligenza.
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[+] se è uno dei migliori...
(di gec)
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g. romagna
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sabato 5 febbraio 2011
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il grande capo
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Il direttore di un'azienda informatica danese si è finto per anni il subalterno di un "grande capo" che lavora in America e che mai si è visto in Danimarca. Quando il direttore si trova a dover firmare un contratto di vendita (che prevede il licenziamento di tutti i dipendenti) ad un gruppo islandese, assolda un attore teatrale (grande appassionato di un autore sconosciuto, tale Antonio Gambini) che dovrà fingere di essere il "grande capo". A costui viene però raccontato che il boss americano non è presente per impossibilità, e solo più tardi viene a sapere che in realtà non esiste e che la cessione comporterà l'esubero delle maestranze.
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Il direttore di un'azienda informatica danese si è finto per anni il subalterno di un "grande capo" che lavora in America e che mai si è visto in Danimarca. Quando il direttore si trova a dover firmare un contratto di vendita (che prevede il licenziamento di tutti i dipendenti) ad un gruppo islandese, assolda un attore teatrale (grande appassionato di un autore sconosciuto, tale Antonio Gambini) che dovrà fingere di essere il "grande capo". A costui viene però raccontato che il boss americano non è presente per impossibilità, e solo più tardi viene a sapere che in realtà non esiste e che la cessione comporterà l'esubero delle maestranze. Il direttore si è sempre finto un vice "del grande capo" perchè solo così poteva ottenere l'affetto di tutti i suoi sottoposti, ed anche ora potrà scaricare sull'attore assoldato la colpa per tutti i licenziamenti tornandosene a casa con un bel gruzzolo in tasca. Quest'ultimo tenta inizialmente di temporeggiare, rinviando più e più volte la cessione, poi, cercando di fare leva sulla necessità del direttore di sentirsi sempre e comunque amato, cercherà di rivoltare a proprio favore - e dei lavoratori - la situazione. Non tutto però va nella maniera attesa, perchè entra in gioco, in maniera decisiva, il suddetto Gambini... Commedia geniale, brillante, ricca di colpi di scena e capace di contenere canoni di stringente logicità in una vicenda quasi da teatro beckettiano. Lo stile di Von Trier è quello solito - anche se depurato dall'utilizzo della camera a mano -, potenzialmente molto indigesto e pure fastidioso, con continui tagli di montaggio e medesime scene inquadrate da infiniti punti di vista nel giro di pochi secondi, ma il risultato finale è quantomai azzeccato. Lo scontro tra sentimenti messi in scena - affetto contro guadagno e ipocrisia nel direttore, etica contro professionalità nell'attore - sconfina volutamente nell'irrazionale, ma, come un tuffo improvviso in acque gelide, provvede alla fine a riportarci concretamente nella dimensione tangibile della realtà quotidiana, e con un sapore che, per non togliere, a chi lo volesse, il piacere della visione, non vale certo la pena svelare in questa sede...
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