L'educazione fisica delle fanciulle

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Un film di John Irvin. Con Jacqueline Bisset, Hannah Taylor-Gordon, Anna Maguire, Emily Pimm.
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Titolo originale The Fine Art of Love: Mine Ha-Ha. Drammatico, durata 107 min. - Gran Bretagna, Italia, Repubblica ceca 2005. - 01 Distribution uscita venerdì 25 novembre 2005. MYMONETRO L'educazione fisica delle fanciulle * - - - - valutazione media: 1,38 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Natalia Aspesi

La Repubblica

Cosa c’è di più allettante per i vecchi sporcaccioni, delle fantasie su un mondo di fanciulle caste e pure, rinchiuse in un severo collegio molto delabré, senza contatti con l’esterno, dove istitutrici e direttrice incrudelite dall’età e dallo zitellaggio girano il disordinato giardino tenendo al guinzaglio cagnacci famelici e ringhianti? Come evitare ai suddetti affannati guardoni stordimenti e deliqui se poi queste fanciulle, e le stesse istitutrici, intrecciano tra loro passioni lesbiche che, come si sa, sono tra i temi più ricorrenti nella pornografia alta e bassa, sin dai tempi settecenteschi della Pamela di Richardson? Ecco fuori concorso L’educazione fisica delle fanciulle che mette subito soggezione perché ispirato al romanzo dal titolo inquietante, Mine Ha-Ha, l’educazione fisica delle fanciulle, scritto nel 1903 da Frank Wedekind, in una situazione claustrofobica, nella fortezza di Konigstein dove era stato rinchiuso per lesa maestà, a causa delle sue poesie antimonarchiche. Ma poi ci ha pensato Alberto Lattuada, regista appassionato di turbamenti adolescenziali, che da decenni sognava di fame un film, a scrivere con Ottavio Jemma una sceneggiatura meno sulfurea anche se non morigerata: e il regista inglese John Irving a farne un film né bello né brutto, un po’ mistery e un po’ horror, di un erotismo letterario in qualche modo fuori tempo (oggi le Melisse e compagne sono troppo luci rosse per essere eccitanti), come se la Claudine di Colette dopo aver pasticciato con le compagne di scuola, si fosse trovata davanti al castello di Histoire d’O della Reage e ne fosse fuggita a gambe levate.
L’epoca è spostata di qualche anno, all’alba della prima guerra mondiale, il che consente tentativi di metafore belliche, sociali e femministe, e di vestire le maestre di nequizie (tra cui Eva Grimaldi), con neri severi abiti a vita di vespa e busto montagnoso, e le piccole recluse con camicioni bianchi da notte, da cui spuntano come è ovvio peccaminose calze nere pedofile. La storia, anche se tratta dal venerato nemico della rispettabilità Wedekind, è piuttosto demente. Ignoti neonati femmina vengono segretamente portati nella tetra dimora dove crescono sino a diventare graziose adolescenti che non sanno nulla della vita e a cui insegnano a bacchettate solo danza classica e buone maniere.
E’ una vita inutile in una comunità chiusa, solo femminile e quindi demoniaca, per l’epoca che aveva creato il culto della vamp, della vampira, della donna funesta mangiatrice di uomini, che li uccide togliendogli la linfa vitale: è un peccato che, a parte il vecchio giardiniere sordomuto e il decrepito medico alcolizzato, il solo maschio che arriva un giorno a indagare su misteriose scomparse di fanciulle, sia un Enrico Lo Verso poco sexy nel suo colletto inamidato e nel suo assurdo inglese. Per forza le sedicenni preferiscono assaltarsi tra loro nei lettini della buia camerata o piombano tra le lenzuola della istitutrice corruttrice. Si sospetta che anche la spietata direttrice un po’ assassina nasconda qualche suo tribadismo, o uranismo, come dicevano allora i sessuologi ficcanaso, tipo Ulrichs o Kraft- Ebing, avidi di marchiare come perversione qualunque piacevole distrazione soprattutto femminile: e riesce a incutere spavento nel ruolo quella Jacqueline Bisset che trent anni fa in La donna della domenica di Comencini fece innamorare con la sua classe mezza Italia. Mentre qui, sfiorita e torbida, avrà nuovi perversi ammiratori.
Solo a una contorta mente maschile espressionista ma anche in questi banali tempi televisivi, poteva venire in mente che tutto quel mistero, e quel paio di cadaveri, e quei soldi buttati via per insegnare a danzare, male, fanciulle anche bruttine, che se deflorate da imprudenti insegnanti femmine vengono cacciate in cucina per sempre (“Le serve non hanno un’anima!” grida la Bisset), abbia lo scopo di procurare a un depravato Principe (apparizione inconsulta di Urbano Barberini), alcune verginelle di bon ton. La prescelta del film, cicciotella come si conveniva allora, che molto sapeva delle delicate delizie saffiche, giustamente strilla disperata davanti alla sconosciuta violenza sessuale maschile. Non per niente quelli erano tempi in cui alle spose si predicava la necessità del “sublime sacrificio”, inevitabile data la “natura bestiale” dell’uomo. Anche in un film poco emozionante come questo, uno stupro con la fanciulla ridotta a merce senza valore inquieta. Ci vogliono i cinesi per darne un’immagine crudele come un rito barbarico, ma in cui la vittima non si piega alla sopraffazione che il padrone esercita come solo modo di esprimere la passione: nello stordente e fiabesco Sette spade del geniale Tsui Hark, il magnifico e cattivissimo generale Vento di Fuoco, riccamente abbigliato da corazza scolpita di cuoio, mantello dl pelliccia, enorme spada istoriata, sodomizza l’amatissima e furibonda schiava coreana ingioiellata e denudata: e lei smorfiosa, per non dargli soddisfazione, anziché strillare disperata, tace e sbrana a morsi un bel pollo arrosto abbandonato sulla tavola imbandita. Tanto che lui, umiliato, lascia perdere.
Da La Repubblica, 1 settembre 2005


di Natalia Aspesi, 1 settembre 2005

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