Domino, il film di Tony Scott, fratello di Ridley, sembrerebbe la bizzarra scorribanda nelle fantasie di una mitomane che racconta inventandosi, per citare una nota canzonetta, una vita spericolata. In realtà l’ esistenza a rischio c’è davvero: la professione di cacciatore di taglie è praticata in alcuni stati d’America e il lungometraggio si propone appunto come una libera biografia di Domino Harvey, la bellissima figlia di un attore e di una modella, che alla riviste patinate preferì il moderno mestiere della armi, da cui ricavò fama ma anche altro almeno a giudicare dal fatto che fu trovata morta nel suo appartamento, causa ufficiale una dose eccessiva di barbiturici. Scott, affascinato da una donna indubbiamente unica, cerca di onorarne l’ anticonformismo e la volontà di camminare costantemente sul filo di un rasoio: l’agitarsi convulso della macchina da presa a mano, immagini deformate, accelerazioni ed elissi improvvise, frenesia di musica e suoni, sono la cifra di uno stile desultorio, disturbato e frastornante mirato a restituire la smania febbrile della protagonista, l’ insofferenza alle convenzioni, qualcosa di simile a Natural Born Killers di Stone e di Paura e delirio a Las Vegas di Gillian.
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Domino, il film di Tony Scott, fratello di Ridley, sembrerebbe la bizzarra scorribanda nelle fantasie di una mitomane che racconta inventandosi, per citare una nota canzonetta, una vita spericolata. In realtà l’ esistenza a rischio c’è davvero: la professione di cacciatore di taglie è praticata in alcuni stati d’America e il lungometraggio si propone appunto come una libera biografia di Domino Harvey, la bellissima figlia di un attore e di una modella, che alla riviste patinate preferì il moderno mestiere della armi, da cui ricavò fama ma anche altro almeno a giudicare dal fatto che fu trovata morta nel suo appartamento, causa ufficiale una dose eccessiva di barbiturici. Scott, affascinato da una donna indubbiamente unica, cerca di onorarne l’ anticonformismo e la volontà di camminare costantemente sul filo di un rasoio: l’agitarsi convulso della macchina da presa a mano, immagini deformate, accelerazioni ed elissi improvvise, frenesia di musica e suoni, sono la cifra di uno stile desultorio, disturbato e frastornante mirato a restituire la smania febbrile della protagonista, l’ insofferenza alle convenzioni, qualcosa di simile a Natural Born Killers di Stone e di Paura e delirio a Las Vegas di Gillian. L’adesione alla soggettività del personaggio accompagna l’intenzione del regista di non interpretarne l’eccezionalità, di lasciarne nell’ombra i misteriosi moventi: i pugni di Domino lasciano però ugualmente trapelare il violento rifiuto/odio per se stessa e solo di riflesso per un sistema che avrebbe fatto di lei una privilegiata, valorizzando l’involucro da bambola e deprivandola dell’energia interiore. Da qui l’impulso a tradire la propria delicata bellezza, virilizzandosi e militarizzandosi, vivendo in cameratesca simbiosi con truci pistoleri, concedendo pochissimo alla teoria di sentimenti ed ideali e moltissimo all’azione nuda e cruda. Purtroppo l’opposizione epidermica della soldatessa dal fragile aspetto s’imbriglia subito nella scomposta satira sociale e ciò determina lo scarso appeal della pellicola: nell’ambizione di rappresentare causticamente il volto grottesco di un Paese e la sua storia più recente, l’autore si trova in mano un veicolo che non è in grado di dominare e sull’intreccio sdrucciolevole sbanda. Nell’aggrovigliarsi spunta fuori di tutto: televisione e mafia, terroristi e mescolanza di razze, un braccio mozzato con impressa la combinazione di una cassaforte, un pesciolino rosso, come fossimo contemporaneamente dalle parti di Lee, di Tarantino e di Burton, una grossa somma da trovare per operare una bambina malata, rapinatori con la maschera delle ultime First Lady, una torre fatta esplodere dall’alto, quasi una lettura in chiave antiamericana dell’11 settembre, e alla fine l’ipotesi di una redenzione preannunciata da un fantomatico uomo del deserto e l’immancabile morale ovvero che tutti siamo destinati a cadere, vale a dire la vita maleducata non è un privilegio.
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