elgatoloco
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lunedì 25 novembre 2019
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decisamente interessante, molto "spielberg"
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Al di là di commenti positivi o di stroncature, credo che questo"The Terminal"di Steven SPielberg abbia ricevuto apprezzamenti e comunque anche solo discussioni minori, forse perché non è una"grande narrazione", come erano "IT", prima ancora "Close Encounters of the Third Kind"e cito questi film , ma anche naturalmente"Schindler's List"proprio come esempio di grandi narrazioni, qui, invece, siamo sul"co^té"più lirico della soggetività, anzi quasi dell'indibidualità, con la storia di un immigrato, che perà vuole andare a New York solo per l'autografo di un jazzista, che manca nella collezione del padre, ormai defunto, Solo che nel suo paese scoppia la guerra, per cui negli States(ma forse anche altrrove, la vicenda è ispirata a un caso reale, di un"apolide temporaneo"all'aerepprto Charles de Gaulle di Parigi)diviene un apolide e non può lasciare the terminal, intrecciando la sua vicenda con le centinaia(o migliaia)di altre microstorie che pervadono il temrinal stesso, fondendosi in qualche modo, pur rimanendo distinte.
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Al di là di commenti positivi o di stroncature, credo che questo"The Terminal"di Steven SPielberg abbia ricevuto apprezzamenti e comunque anche solo discussioni minori, forse perché non è una"grande narrazione", come erano "IT", prima ancora "Close Encounters of the Third Kind"e cito questi film , ma anche naturalmente"Schindler's List"proprio come esempio di grandi narrazioni, qui, invece, siamo sul"co^té"più lirico della soggetività, anzi quasi dell'indibidualità, con la storia di un immigrato, che perà vuole andare a New York solo per l'autografo di un jazzista, che manca nella collezione del padre, ormai defunto, Solo che nel suo paese scoppia la guerra, per cui negli States(ma forse anche altrrove, la vicenda è ispirata a un caso reale, di un"apolide temporaneo"all'aerepprto Charles de Gaulle di Parigi)diviene un apolide e non può lasciare the terminal, intrecciando la sua vicenda con le centinaia(o migliaia)di altre microstorie che pervadono il temrinal stesso, fondendosi in qualche modo, pur rimanendo distinte... Storie, microstorie, decisivamente separate ma convergneti, con quella che coinvolge il protagonista, che sogna(lo dirò incoativamente)un sogno d'amore con una quasi sconosciuta decisamente in crisi sentimentale... Tom Hanks è qui una sorta di "Forrest Gump"redivivo, dopo un quarto di secolo, ma il personaggio è più"shockato", gettato nel microcosmo difficile del Terminal che un"minorato"come, al netto di ogni valutazione diversa, finiva per essere nel film di Zemeckis... Catherina Zeta Jones, quai quale donna in crisi p forse ancora più efficace, per dire solo dei personaggi principali. Valutazioni iperpositive mi parrebbero eccessive, ma il film coglie molto bene come una microrealtà di un"non luogo"(Marc Augé)possa diventare un luogo concentrazionario, quando la sua direzione p assunta da uno sgherro promosso a super-capo, dove l'interpretazione di Stanley Tucci è invero decisamente notevole, il che sembra da sottolineare. Un film da microstorie, insomma, la cui qualità però è innegabile, anche se forse meno"gridata"e meno evidente... El Gato
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theophilus
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mercoledì 29 gennaio 2014
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ancora a colpo sicuro, come sempre con spielberg
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THE TERMINAL
Di Steven Spielberg si può lapalissianamente affermare che potrà piacere o meno. Spesso i suoi film ricevono parziali appunti negativi che condividiamo: concordiamo ad esempio con chi afferma che un film come Minority Report (2002) talora ecceda in cerebralismo, sia eccessivamente costruito e macchinoso; che Saving Private Ryan (1998) sia pletorico e a volte convenzionale; che A.I. Artificial Intelligence (2001) non sempre riesca a corroborare una storia densa, disperata e fantastica con doti più squisitamente cinematografiche altrettanto complesse ed efficaci. Noi stessi – pur riconoscendone la pregnanza e l’innegabile bellezza - abbiamo parlato di Schindler’s List (1993) come di un film sostanzialmente inutile che va a profanare una materia su cui esistono i filmati storici che non hanno bisogno di ulteriori ampliamenti o notazioni.
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THE TERMINAL
Di Steven Spielberg si può lapalissianamente affermare che potrà piacere o meno. Spesso i suoi film ricevono parziali appunti negativi che condividiamo: concordiamo ad esempio con chi afferma che un film come Minority Report (2002) talora ecceda in cerebralismo, sia eccessivamente costruito e macchinoso; che Saving Private Ryan (1998) sia pletorico e a volte convenzionale; che A.I. Artificial Intelligence (2001) non sempre riesca a corroborare una storia densa, disperata e fantastica con doti più squisitamente cinematografiche altrettanto complesse ed efficaci. Noi stessi – pur riconoscendone la pregnanza e l’innegabile bellezza - abbiamo parlato di Schindler’s List (1993) come di un film sostanzialmente inutile che va a profanare una materia su cui esistono i filmati storici che non hanno bisogno di ulteriori ampliamenti o notazioni.
Solo a citare, come abbiamo appena fatto, alcuni dei suoi numerosi film, dobbiamo però immediatamente constatare come Spielberg si cimenti continuamente con se stesso, con le proprie capacità di affrontare tematiche e generi sempre diversi e a mettere in risalto qualità sempre nuove. Non ci sentiamo di affermare che il nostro sia un genio del cinema, ma di riconoscere che sia un ottimo artigiano con belle intuizioni e qualche momento di genialità che riesce a valorizzare qualsiasi storia, sì. Proseguendo nella segnalazione di esempi che suffraghino l’esistenza di questa sua forma di eclettismo, potremmo menzionare ancora, fra i suoi film recenti, Catch Me If You Can (2002) - storia delineata con toni beffardi sulla vicenda vera di Frank Abagnale - che, pur dotato di una notevole carica ironica, non può essere però considerata una vera commedia fino in fondo.
Se di lui non si può certo dire che sia un regista visionario – ci pare l’anti-Tarantino per eccellenza – in linea generale abbiamo invece spesso ricavato la sensazione che Spielberg tenda a smorzare i toni, che non parli mai sopra le righe, ma cerchi, al contrario, di razionalizzare il materiale che ha a disposizione e lo tenga sempre sotto stretto controllo.
Con quest’ultima sua fatica, The Terminal - film che ha inaugurato la 61. edizione del festival internazionale del cinema di Venezia - se non fosse per Spielberg ci troveremmo di fronte quasi certamente un film zuccheroso, un melo strappalacrime e sentimentale, una storia soporifera d’atmosfera poco più che natalizia, in cui un velato antiamericanismo potrebbe essere coniugato, all’opposto, con il sogno americano.
Spielberg invece recupera questo materiale negativo e gli dà una vita diversa; riesce a far diventare bonariamente comico il dolciastro, divertente il monotono, intelligente il banale, ecc. Riesce ancora a neutralizzare il gigioneggiante Tom Hanks, facendolo passare per un credibile sognatore che, in viaggio da un immaginario paese dell’est, la Krakozhia, arriva al principale scalo aeroportuale di New York proprio nel momento in cui là, da dove è partito, scoppia una rivoluzione. Non essendo più riconosciuti alla sua terra d’origine gli attributi di stato sovrano, ogni rapporto con l’America viene sospeso e Viktor Navorski si trova ad essere considerato alla stregua di un apolide a cui non viene concesso il visto d’entrata: dovrà, pertanto, sostare un tempo indeterminato in quella terra di nessuno in cui è atterrato, in attesa che venga deciso che cosa fare di lui.
Quello che potrebbe, ancora, essere un incubo in piena regola, qualcosa di kafkiano, o essere trattato come un drammone dalle tinte fosche, è invece tenuto sotto le righe dall’abilità di Spielberg. Egli non cavalca la facile tigre della contestazione, della protesta sociale, ma mette con sapienza alla berlina la burocrazia americana, riuscendo, alla fine, a fare vincere lo sprovveduto sognatore dell’est europeo – in realtà puzza di americano lontano un miglio – che saprà rendersi amici tutti i diseredati conosciuti all’interno del JFK e chesfiorerà anche il colpaccio amoroso con la hostess Catherine Zeta Jones. La sua arte, qui come altrove, consiste forse nel recupero del kitsch, nel saper trarre da un potenziale dramma sentimentale, com’è la vicenda di The Terminal, una fiaba allegorica, nell’allontanare un possibile sogno angoscioso con una sorda capacità di resistenza; Spielberg addormenta i toni caustici, raffredda il materiale bollente che ha a disposizione, indirizza sapientemente gli attori verso i propri scopi e crea un’atmosfera quasi incantata.
Di Viktor non si sa nulla. Egli non capisce una parola d’inglese e non sono disponibili interpreti per farlo comunicare con le autorità presenti. Non si sa perché sia venuto in America, né quanto tempo intendesse restarci: ma Viktor, evidentemente, non ha fretta e questo sembra un ulteriore elemento di sconcerto per il dirigente del principale aeroporto di New York (Stanley Tucci). Ancora, il fatto che egli sia partito poche ore prima che nella sua patria scoppiasse una rivolta sanguinaria, fa pensare a un beniamino della Provvidenza o a una Cenerentola che fugga dal castello prima dei fatali rintocchi dell’orologio e, alla fine, l’atmosfera della storia ci ha ricordato It’s a Wonderful Life, uno dei film più popolari di Frank Capra, girato nel 1946.
Viktor Navorsky è volato in America solamente per completare il sogno paterno di avere un autografo del Jazzman Benny Golson, l’ultimo ancora mancante di una lunga collezione di cartoncini siglati da alcuni dei più famosi musicisti di Jazz e conservati dentro ad un barattolo che egli ha con sé. In quel soggiorno forzato, all’interno dell’aeroporto, riuscirà ad imparare l’inglese in modo sufficiente a raggiungere il suo scopo; sfiderà inconsapevolmente le convenzioni americane e ne uscirà vincitore. Il suo è una sorta di tour della sopravvivenza: grazie alle capacità, all’intelligenza e alla pazienza forse affinate nella supposta miseria del suo paese d’origine, come pure alla sua innata ingenuità e aiutato infine da un po’ di fortuna e da un briciolo di furbizia, egli riesce a superare ogni genere di ostacoli.
Viktor Navorsky, infine, ci è parso per certi versi – la capacità di adattamento, l’abilità e la semplicità – l’omologo, per altri – la sua forzata condizione d’immobilità all’interno dell’aeroporto – il contraltare di un altro fortunato personaggio impersonato da Tom Hanks nel 1994, Forrest Gump.
Enzo Vignoli,
24/09/2004
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