rossella
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mercoledì 15 ottobre 2003
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la follia della normalità
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Di una bellezza sconvolgente. durissimo. potrei paragonare il punto di vista del regista, esterno, asettico, al miglior hemingway. nessun tentativo di spiegare, inutile cercare motivazioni a un gesto incomprensibile.
Il vuoto della casa di uno degli assassini,una madre della quale non si vede il volto: gli unici indizi, troppo deboli, per cercare di capire le ragioni di una strage immotivata. immagini bellissime: parco autunnale con alberi d'oro, vetrate che riflettono una luce pulita e scintillante. e ragazzi soli, ognuno chiuso nella sua solitudine, anche nella fuga un silenzio raggelante.
Un film bellissimo, le cui immagini rimarranno impresse, piaccia o no, nella memoria di ciascuno."
[+] assolutamente inquietante
(di luchino)
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frdb82
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lunedì 2 maggio 2005
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un elefante
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Un mare aperto di angoscia contratta e di vuoto. Vedi la continua frustrazione delle aspettative dello spettatore in un film sperimentale in cui per i primi due terzi succede poco o niente e in cui gli stessi avvenimenti vengono riproposti più volte sotto punti di vista differenti, vedi l’ipnosi di una regia atta ad avvolgerci sofficemente in una stasi contemplativa e annichilente, limitandosi semplicemente a registrare la routine di una giornata come le altre, vedi le problematiche nascoste e mantenute sotto controllo degli adolescenti ritratti (dalle anoressiche, ai disadattati, alle problematiche familiari, al suicida), vedi l’attesa persistente di un’esplosione di violenza liberatoria, di un climax più volte rimandato che non giungerà mai; neanche, e inaspettatamente, nel momento della strage, filmata anch’essa così come è, nella sua più chiara naturalezza e trasparenza, senza lasciar trapelare un minimo di coinvolgimento e passionalità.
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Un mare aperto di angoscia contratta e di vuoto. Vedi la continua frustrazione delle aspettative dello spettatore in un film sperimentale in cui per i primi due terzi succede poco o niente e in cui gli stessi avvenimenti vengono riproposti più volte sotto punti di vista differenti, vedi l’ipnosi di una regia atta ad avvolgerci sofficemente in una stasi contemplativa e annichilente, limitandosi semplicemente a registrare la routine di una giornata come le altre, vedi le problematiche nascoste e mantenute sotto controllo degli adolescenti ritratti (dalle anoressiche, ai disadattati, alle problematiche familiari, al suicida), vedi l’attesa persistente di un’esplosione di violenza liberatoria, di un climax più volte rimandato che non giungerà mai; neanche, e inaspettatamente, nel momento della strage, filmata anch’essa così come è, nella sua più chiara naturalezza e trasparenza, senza lasciar trapelare un minimo di coinvolgimento e passionalità. Estatica la scelta delle musiche classiche in relazione alle atmosfere cullanti e lucidamente crudeli del film
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ggalletti
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venerdì 1 settembre 2006
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la mappatura dello spazio
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Forse Gus aveva bene in mente le sequenze di L'anno scorso a Marienbad di Resnais al momento di girare il suo Elephant. Probabilmente ricordava bene quei corridoi vuoti che si aprivano su altri corridoi, quelle parole sfumate che si ripetevano senza senso nelle bocche di ectoplasmatici avventori di un lugubre hotel. L'assenza di identità, l'assenza di memoria. Oltre Resnais: l'assenza di capacità di distinguere, o anche solo interessarsi, a ciò che è bene e ciò che è male; la realtà dal gioco.
Eppure c'è un'operazione molto curiosa che compie Van Sant: contestualizza non solo emotivamente e psicologicamente, ma anche "geograficamente" lo spazio della tragedia. Lunghe camminate attraverso la scuola non solo "delimitano il campo", ma lo "mappano".
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Forse Gus aveva bene in mente le sequenze di L'anno scorso a Marienbad di Resnais al momento di girare il suo Elephant. Probabilmente ricordava bene quei corridoi vuoti che si aprivano su altri corridoi, quelle parole sfumate che si ripetevano senza senso nelle bocche di ectoplasmatici avventori di un lugubre hotel. L'assenza di identità, l'assenza di memoria. Oltre Resnais: l'assenza di capacità di distinguere, o anche solo interessarsi, a ciò che è bene e ciò che è male; la realtà dal gioco.
Eppure c'è un'operazione molto curiosa che compie Van Sant: contestualizza non solo emotivamente e psicologicamente, ma anche "geograficamente" lo spazio della tragedia. Lunghe camminate attraverso la scuola non solo "delimitano il campo", ma lo "mappano". Perchè? Forse per far comprendere in modo ancora più preciso la fredda e insensata lucidità con cui il piano è stato congeniato. Quando i due ragazzi aprono la mappa della scuola, lo spettatore può già essere in grado di visualizzare i luoghi e i percorsi. Quando i ragazzi scappano da un'ala all'altra dell'edificio, è già possibile ipotizzare se la via di fuga verso l'esterno sia a portata di mano o no.
Va bene, e poi? Cosa ci resta?
A me è rimasto il silenzio che accompagna la carneficina: silenzio tra le mura di Columbine, silenzio e catatonicità di quello che avviene all'esterno, tra chi, sfuggito al massacro, si trova come spettatore di una specie di torneo di nascondino. Quello dell'uomo moderno con la propria coscienza.
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breveecirconciso
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giovedì 24 marzo 2011
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elephant in a room
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Elephant si erge in tutta la sua mole pachidermica, schiacciando lo spettatore tra l’inquietudine e l’ammirazione per quest’opera. Il film è tratto dalla triste vicenda realmente accaduta nella Columbine High School il 20 Aprile 1999, quando in una tranquilla giornata scolastica due studenti si presentarono a scuola armati, e aprirono il fuoco su docenti e compagni, uccidendone 12 e ferendone 24.
La ripresa di Gus Van Sant non giudica, mostra semplicemente. Pedina i protagonisti della vicenda, assassini e vittime, come uno spettatore invisibile. E’ superpartes. Inquadra la strage in una cornice di routine, a volte volutamente ostentata. E’ tutto normale.
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Elephant si erge in tutta la sua mole pachidermica, schiacciando lo spettatore tra l’inquietudine e l’ammirazione per quest’opera. Il film è tratto dalla triste vicenda realmente accaduta nella Columbine High School il 20 Aprile 1999, quando in una tranquilla giornata scolastica due studenti si presentarono a scuola armati, e aprirono il fuoco su docenti e compagni, uccidendone 12 e ferendone 24.
La ripresa di Gus Van Sant non giudica, mostra semplicemente. Pedina i protagonisti della vicenda, assassini e vittime, come uno spettatore invisibile. E’ superpartes. Inquadra la strage in una cornice di routine, a volte volutamente ostentata. E’ tutto normale. “Elephant in a room” dicono gli americani, intendendo un problema di grosse dimensioni che pur essendo sotto gli occhi di tutti passa inosservato.
Il film può piacere o non piacere, ma va riconosciuto nella sua perfezione stilistica e nella precisione con cui centra l’obbiettivo prefissato. E’ interessante come non sia possibile affermare con certezza quali siano i killer, tra tutti i ragazzi inquadrati, fin quando questi non acquistano le armi. Non sono così diversi dagli altri. Infine una sottigliezza: un messaggio profondo proviene dal personaggio apparentemente più marginale, Benny, che nella sua breve comparsa si sposta nell’istituto come se si stesse domandando “Che cosa sta succedendo? Qual è il senso di tutto questo?”.
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marcello fittipaldi
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venerdì 7 novembre 2003
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benvenuti alla columbine high school!
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Gus Van Sant ripercorre l'avvenimento sconcertante della strage avvenuta alla Columbine High School forse perché cercava un soggetto cinematografico tanto cruento da lasciare senza parole anche il più cinico appassionato di horror movies. Forse attraversava un periodo d'apertura al sociale, di risposta costruttiva all'inettitudine dilagante dell'umanita tutta. Forse non riusciva a togliersi dalla mente quel documentario frutto del copioso e impeccabile lavoro di Michael Moore, Bowling a Columbine. Fatto sta che Gus Van Sant ha scelto una storia vera, questa storia, e ha realizzato un film, Elephant, con una superba capacità espressiva e narrativa tale da ricondurci nelle atmosfere grigie e sconcertanti dell'indimenticabile Drugstore Cowboy.
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Gus Van Sant ripercorre l'avvenimento sconcertante della strage avvenuta alla Columbine High School forse perché cercava un soggetto cinematografico tanto cruento da lasciare senza parole anche il più cinico appassionato di horror movies. Forse attraversava un periodo d'apertura al sociale, di risposta costruttiva all'inettitudine dilagante dell'umanita tutta. Forse non riusciva a togliersi dalla mente quel documentario frutto del copioso e impeccabile lavoro di Michael Moore, Bowling a Columbine. Fatto sta che Gus Van Sant ha scelto una storia vera, questa storia, e ha realizzato un film, Elephant, con una superba capacità espressiva e narrativa tale da ricondurci nelle atmosfere grigie e sconcertanti dell'indimenticabile Drugstore Cowboy. Eppure i tempi sono cambiati nell'America della Columbine, i ragazzi non appartengono più alla generazione figlia diretta della Beat Generation. Non è escluso però che ne siano i nipoti.
Gus Van Sant presenta un evento terrificante in un modo che mai avevo visto. La sensazione che accompagna l'intera durata del film è angosciante. Ci si sente soli ad attraversare quegl'interminabili corridoi in compagnia dei protagonisti-non-protagonisti di questo capolavoro dell'inquietudine. Il presagio del crimine aleggia fin dalle prime inquadrature (agghiaccianti) e ti si avvinghia addosso per non lasciarti più fino al giorno dopo. Questo film è la messa in scena di un giorno qualunque della vita vissuta da ragazzi qualunque, in una scuola qualunque, dove altri due giovani qualunque decidono di dare sfogo al lato più oscuro della loro anima: il male.
Inquadrature soffocanti, tempi strettissimi, eco dei passi che si susseguono ridondantemente tra un inseguimento e un altro, tra un punto di vista e un altro. Colori intensi offuscati da un grigiume autunnale che fa da sfondo ad una vera e propria strage degli innocenti. Unico commento all'uscita dalla sala: !
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petercinefilodoc
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giovedì 19 giugno 2014
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un film che tocca dicendo la sua con tatto
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Quella che sembra una normale giornata di scuola, si trasformerà presto in un inferno. Due ragazzi, che nella pellicola ci vengono mostrati come isolati e bullizzati, acquistano online delle armi e mettono in atto quello che sarebbe diventato uno dei più grandi massacri della storia americana, per poi suicidarsi. Il massacro avvenuto 15 anni alla Columbine High School è qualcosa di talmente terribile e sconcertante che scriverci diventa molto complicato, addirittura doloroso, pensate farci un film. Ma Gus Van Sant (Will Hunting - Genio ribelle, Milk) in "Elephant" riesce a raccontare questa vicenda con il giusto tatto, non esaltando in nessun modo la violenza, ma semplicemente seguendo la tipica routine dei personaggi.
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Quella che sembra una normale giornata di scuola, si trasformerà presto in un inferno. Due ragazzi, che nella pellicola ci vengono mostrati come isolati e bullizzati, acquistano online delle armi e mettono in atto quello che sarebbe diventato uno dei più grandi massacri della storia americana, per poi suicidarsi. Il massacro avvenuto 15 anni alla Columbine High School è qualcosa di talmente terribile e sconcertante che scriverci diventa molto complicato, addirittura doloroso, pensate farci un film. Ma Gus Van Sant (Will Hunting - Genio ribelle, Milk) in "Elephant" riesce a raccontare questa vicenda con il giusto tatto, non esaltando in nessun modo la violenza, ma semplicemente seguendo la tipica routine dei personaggi. La macchina da presa si muove agilmente e freddamente tra gli enormi corridoi della scuola attraverso lunghi piani sequenza, il film è realizzato quasi completamente con questa tecnica che conferisce una realisticità pazzesca, in un crescendo di ansia. Il regista statunitense candidato all'oscar utilizzata la stessa tecnica utilizzata da Kubrick in "Rapina a mano armata",mostrandoci più volte la stessa vicenda da punti di vista diversi, da soggetti diversi. Egli non ci propone il fatto esattamente come avvenuto nella realtà, almeno per quanto riguarda i fatti,che però non vengono mutati molto, solo quanto basta per permettergli di mettere in risalto in punti a lui cari. Che nel paese più potente e all'avanguardia del mondo le armi si possono tranquillamente comperare anche al supermercato, è ormai vergognosamente noto a tutti. E' troppo facile però attribuire il gesto di questi due ragazzi alla follia, come non sarebbe giusto dire che l'olocausto sia stato causato soltanto dalla pazzia dei nazisti, quando in realtà c'erano anche altri motivi di natura economica-sociale. In una scena del film i due ragazzi trovano un documentario dedicato proprio ad Hitler, per il quale provano una certa simpatia. Questo momento potrebbe essere un velato riferimento proprio a questo. Si rimane sconvolti invece nel constatare la lucidità con cui avevano pianificato il piano ed inoltre, il ragazzo che compare all'inizio del film, John, anch'egli ha problemi in famiglia causati dal fatto che il padre si ubriaca, ma a differenza dei compagni non gli viene in mente di ammazzare qualcuno. I problemi dei suoi coetanei sarebbero dovuti essere risolti prima. Qualcosa viene spiazzata nel finale, ma la verità è che nessuno saprà mai cosa sia passato nella testa di quei ragazzi, la mente è un abisso, non possiamo controllare la mente di altre persone, ma possiamo controllare la nostra. Ed invece si preferisce rimpicciolire quell'elefante a cui si riferisce il titolo, un problema grande e visibile quanto quell'animale,ma che però si preferisce mettere da parte. Chissà se parlare con loro, affrontare insieme il problema, avrebbe potuto cambiare qualcosa. Elephant non è un film comune, si prende il suo tempo per mostrarci l'ordinarietà di una giornata qualunque che poi purtroppo non si è mostrata tale. Un'opera potente, ansiogeno, struggente e realista, che lascia il segno, dice la propria ma con il giusto tatto. Da vedere assolutamente!
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doctor love
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lunedì 15 gennaio 2007
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normali mostruosità quotidiane
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Con gli ultimi anni Van Sant è uscito dalla mediocrità dei suoi ultimi e (sopravvalutati)campioni di incassi, abbandonando redditizi copioni con begli attori e più o meno buoni sentimenti per tornare a raccontare quello che meglio sa fare: i drammi della quotidianità, con personaggi veri e fragili come foglie, non geni ribelli ma normali e banali. In questo senso la sua trilogia della gioventù disegna il capitolo più amaro, costringendoci a sperimentare senza filtri la sensazione di smarrimento e impotenza che lo spettatore statunitense ha provato di fronte alla notizia della strage. Chi si aspettava esaltanti scene di azione, con incessanti raffiche e ritmo incalzante è rimasto deluso: il film è lento e piatto come lo scenario che descrive.
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Con gli ultimi anni Van Sant è uscito dalla mediocrità dei suoi ultimi e (sopravvalutati)campioni di incassi, abbandonando redditizi copioni con begli attori e più o meno buoni sentimenti per tornare a raccontare quello che meglio sa fare: i drammi della quotidianità, con personaggi veri e fragili come foglie, non geni ribelli ma normali e banali. In questo senso la sua trilogia della gioventù disegna il capitolo più amaro, costringendoci a sperimentare senza filtri la sensazione di smarrimento e impotenza che lo spettatore statunitense ha provato di fronte alla notizia della strage. Chi si aspettava esaltanti scene di azione, con incessanti raffiche e ritmo incalzante è rimasto deluso: il film è lento e piatto come lo scenario che descrive. Non c'è degrado, niente apparenti tensioni sociali nella lucente e impeccabile scuola immaginaria, tutto scorre normalmente,la mensa e i lunghi corridoi sono lindi, ci sono belle palestre, biblioteca, laboratori fotografici...e ognuno dei personaggi immersi in questo microcosmo si presenta di fronte a noi senza preamboli e finzioni, ciascuno con i suoi piccoli e poco interessanti problemi da adolescente. La sensazione di essere di fronte ad un acquario, o ad una gabbia allo zoo, è accentuata dalla splendida fotografia e dalle musiche, che danno irrealtà all'atmosfera di attesa (tutti sappiamo che cosa succederà prima o poi..). Anche nel videogioco in cui i due ragazzi sognano di sparare ai compagni il mondo è piatto, monotono e le vittime sono manichini tutti uguali uno all'altro. Dopo aver scomposto la narrazione per seguire i personaggi nei momenti appena precedenti l'evento cruciale, nelle scene della strage il film riesce a mantenere immutata l'atmosfera nonostante l'esplosione di violenza, chiudendosi senza nessuno squillo: facile immaginare che il giorno dopo tutto riprenda a scorrere come prima.
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luci-j
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lunedì 18 ottobre 2010
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un pugno nello stomaco
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Poche volte si può osservare un film e arrivare in fondo con quell'amaro che ti lascia letteralmente ammutolito,Elephant è una di quelle eccezioni,un vero pugno chiuso e pronto a colpire con una violenza pacata e surreale lo spettatore che impietrito avrà a malapena la forza di realizzate che ciò che a visto è il crudo spaccato di una società folle.
Riprendendo il terribile fatto di cronaca riguardante il massacro alla Columbine,Van Sant,riesce e regalare allo spettatore qualcosa di unico. poteva raccontare la prevedibile storia degli aguzzini che,una volta motivate le cause,avviano il massacro e concludendo con una conclusione posteriore alla tragedia.
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Poche volte si può osservare un film e arrivare in fondo con quell'amaro che ti lascia letteralmente ammutolito,Elephant è una di quelle eccezioni,un vero pugno chiuso e pronto a colpire con una violenza pacata e surreale lo spettatore che impietrito avrà a malapena la forza di realizzate che ciò che a visto è il crudo spaccato di una società folle.
Riprendendo il terribile fatto di cronaca riguardante il massacro alla Columbine,Van Sant,riesce e regalare allo spettatore qualcosa di unico. poteva raccontare la prevedibile storia degli aguzzini che,una volta motivate le cause,avviano il massacro e concludendo con una conclusione posteriore alla tragedia.Invece no,decide di trascinare lo spettatore nella routine adolescienziale della scuola,ci abitua alla noia e alla calma che veglia sui protagonisti fino a pochi minuti dalla fine,poi...."Bam" Colpisce in maniera inesorabile e repentina concludendo nella più drammatica rappresentazione del delirio....
Un vero capolavoro!
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1.03.01
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francesco di benedetto
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venerdì 8 settembre 2006
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elephant e il caimano
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Spiazzare le aspettative di coinvolgimento immediato e passionale da parte dello spettatore.
Rinunciare alla concretezza, alla densità materiale degli stimoli percettivi da comunicare.
Disancorare dunque lo spettatore da stabili punti di appoggio e di riferimento.
Tenere desta la tensione percettiva dello spettatore, mantenendola su questo binario di persistente frustrazione.
Far emergere con lucidità attraverso la sofisticatezza della messa in scena tutto il caos insito nell’attività, ormai sputtanatissima, di produzione delle immagini.
Riflettere dunque sul cinema e su di sè.
Constatare lo scacco, l’impotenza da parte dello sguardo, narrandone l’asfittico, asfissiante, bulimico consumo di stimoli visivi, ora fermandosi insistentemente alla glacialità, disumanità, impersonalità di un punto di vista, ora forzando gli input percettivi nel senso di uno scoppiettante e surreale parossismo espressivo; ma fornendo in ogni caso sempre la stessa impressione finale di logoramento dell’attenzione, di incompiutezza e di caos.
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Spiazzare le aspettative di coinvolgimento immediato e passionale da parte dello spettatore.
Rinunciare alla concretezza, alla densità materiale degli stimoli percettivi da comunicare.
Disancorare dunque lo spettatore da stabili punti di appoggio e di riferimento.
Tenere desta la tensione percettiva dello spettatore, mantenendola su questo binario di persistente frustrazione.
Far emergere con lucidità attraverso la sofisticatezza della messa in scena tutto il caos insito nell’attività, ormai sputtanatissima, di produzione delle immagini.
Riflettere dunque sul cinema e su di sè.
Constatare lo scacco, l’impotenza da parte dello sguardo, narrandone l’asfittico, asfissiante, bulimico consumo di stimoli visivi, ora fermandosi insistentemente alla glacialità, disumanità, impersonalità di un punto di vista, ora forzando gli input percettivi nel senso di uno scoppiettante e surreale parossismo espressivo; ma fornendo in ogni caso sempre la stessa impressione finale di logoramento dell’attenzione, di incompiutezza e di caos.
Due esempi mirabili e inquietanti di metalinguaggio, di lucida denuncia dello stato alterato, alienato di coscienza determinato dai media visivi. Dove a tanta attuale dirompente ed insinuante ploriferazione di angoli visuali proposti (internet, televisione, ecc.) fa riscontro uno sguardo castrante, diafano, crudamente contemplativo della gratuità, indecifrabilità propria e di ciò che lo circonda, sottratto da qualsiasi anelito di tangibile seduttività
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francesco di benedetto
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sabato 9 settembre 2006
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elephant e il caimano (versione corretta)
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Spiazzare le aspettative di coinvolgimento immediato e passionale da parte dello spettatore.
Negare o comunque non evidenziare concretezza, intensità e densità materiale degli stimoli percettivi da comunicare.
Disancorare dunque lo spettatore da stabili punti di appoggio e di riferimento.
Tenere desta la tensione percettiva dello spettatore, mantenendola su questo binario di persistente frustrazione.
Far emergere con lucidità attraverso la sofisticatezza della messa in scena tutto il caos insito nell’attività, ormai sputtanatissima, di produzione delle immagini.
Riflettere dunque sul cinema e su di sè.
Constatare lo scacco, l’impotenza da parte dello sguardo, narrandone l’asfittico, asfissiante, bulimico consumo di stimoli visivi, ora fermandosi insistentemente alla glacialità, disumanità, impersonalità di un punto di vista, ora forzando gli input percettivi nel senso di uno scoppiettante e surreale parossismo espressivo; ma fornendo in ogni caso sempre la stessa impressione finale di logoramento dell’attenzione, di incompiutezza e di caos.
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Spiazzare le aspettative di coinvolgimento immediato e passionale da parte dello spettatore.
Negare o comunque non evidenziare concretezza, intensità e densità materiale degli stimoli percettivi da comunicare.
Disancorare dunque lo spettatore da stabili punti di appoggio e di riferimento.
Tenere desta la tensione percettiva dello spettatore, mantenendola su questo binario di persistente frustrazione.
Far emergere con lucidità attraverso la sofisticatezza della messa in scena tutto il caos insito nell’attività, ormai sputtanatissima, di produzione delle immagini.
Riflettere dunque sul cinema e su di sè.
Constatare lo scacco, l’impotenza da parte dello sguardo, narrandone l’asfittico, asfissiante, bulimico consumo di stimoli visivi, ora fermandosi insistentemente alla glacialità, disumanità, impersonalità di un punto di vista, ora forzando gli input percettivi nel senso di uno scoppiettante e surreale parossismo espressivo; ma fornendo in ogni caso sempre la stessa impressione finale di logoramento dell’attenzione, di incompiutezza e di caos.
Due esempi mirabili e inquietanti di metalinguaggio, di lucida denuncia dello stato alterato, alienato di coscienza determinato dai media visivi. Dove a tanta attuale dirompente ed insinuante ploriferazione di angoli visuali proposti (internet, televisione, ecc.) fa riscontro uno sguardo castrante, crudamente contemplativo della gratuità, indecifrabilità propria e di ciò che lo circonda
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