Roberto Nepoti
La Repubblica
C'è un'aria di famiglia nel Tempo dei cavalli ubriachi, struggente odissea equestre vincitrice della Caméra d'Or come miglior opera prima a Cannes. Il regista debuttante infatti, Bahman Ghobadi, ha fatto l'assistente per Kiarostami e appartiene al clan dei Makhmalbaf: è attore nell'ultimo film di Samira, Lavagne e il suo ci riporta negli stessi luoghi di quello, la frontiera curda tra Iran e Iraq dove si combatte una guerra tanto più terrificante, perché quasi invisibile. Anche qui ci sono ragazzini contrabbandieri, versione odierna dei piccoli dannati della terra cinematografici Da Germania anno zero di Rossellini al buñueliano I figli della violenza, condannati a essere adulti prima del tempo. L'autenticità di quel che vediamo è giocata su un fragile, ma miracoloso equilibrio tra documentario e storia immaginaria. Il tempo dei cavalli ubriachi è ammirevole per come riesce a sfuggire a un'infinità di trappole implicite nelle sue premesse. A priori, non è certo difficile commuovere chi sta seduto in platea, protetto e al sicuro da ciò che vede, con un soggetto come questo. Molto più difficile riuscire a commuoverlo senza martirizzare i personaggi, senza rinunciare mai al pudore e alla dignità. A ben vedere, quella di Ghobadi è una posizione coraggiosa anche a fronte del cinema iraniano, oggi tra i migliori del mondo ma che mostra la tendenza a un certo conformismo "di scuola". Se il regista non ha nulla da invidiare al senso dell'inquadratura dei suoi connazionali più conosciuti, la sua scelta è molto lontana dalla moda dei film alla Kiarostami: è soprattutto una scelta di emozioni, che rende questa storia intensa e coinvolgente nonché accessibile al grande pubblico. Qualcosa che evoca, e non soltanto per l'uso di attori non professionisti, l'esperienza del nostro neorealismo.
Da La Repubblica, 8 aprile 2001
di Roberto Nepoti, 8 aprile 2001