Texasville è un sequel la cui caratteristica è di non essere un sequel. Bogdanovich ha giocato bene le sue carte in un’operazione che è sempre molto rischiosa.
Da L’ultimo spettacolo troviamo quasi tutti i protagonisti e naturalmente anche la location è la stessa.
Nella cronologia dei due film sono però passati trenta anni e di fatti ne sono accaduti così come ne è passato di petrolio sotto i ponti. Direi quindi che si tratta di due distanti finestre sulla vita di una comunità e dei suoi membri.
Si comincia e pare di non ritrovarsi, sembra di essere in un grottesco caravanserraglio di accadimenti bizzarri e le persone che li compiono danno l’impressione di fare ciò che fanno solo perché è possibile farlo. I personaggi paiono fondamentalmente apatici e distaccati nei confronti della vita, non sembrano mossi da pulsioni vitali o da sentimenti.
Tra un film e l’altro sembra di essere passati da un Happy Days più tragico a un Dallas più comico.
Forse è questa l’opinione del regista sui mutamenti della società?
Poi ritorna in città Jacy, ex di Duane, ma non ritorna la fiamma. Nascono però degli interrogativi che coinvolgono altre persone. E qui i personaggi crescono di spessore, paiono più umani. Si pongono delle domande, investigano dentro se stessi e provano a relazionarsi con gli altri. Incominciano ad avere un senso anche per lo spettatore che magari li prende in simpatia.
Tutto cambia senza che in realtà cambi nulla, la vita prosegue con lo stesso ritmo e con le stesse faccende ma con una consapevolezza diversa.
Nel finale si chiude con dei sorrisi scambiati fra gli uni e gli altri, nonostante gli eventi non sempre felici.
E qui forse sta il vero collegamento con L’ultimo spettacolo. I protagonisti riescono a sorridere, si sono visti e si sono accettati. Hanno accettato se stessi, ora i trent’anni trascorsi hanno un senso.
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