pestiferik
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lunedì 8 giugno 2009
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deliro splatter!!!
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La vicenda che si svolge nei pressi del muro di Berlino vede una coppia in crisi alle prese con i deliri di lei, Anna (Isabelle Adjani), che trascina a poco a poco suo marito Marc (Sam Neill) in un vortice di dolore, angoscia e soprattutto di efferati omicidi.
Le voci che fanno da sfondo sonoro nei momenti di maggiore agitazione di Anna sono, a mio avviso, quelle della sofferenza provata dalle famiglie divise dallo storico muro; la lotta tra il bene e il male che si svolge nella sua testa è stravinta dal male ed anche questo è un'allegoria di ciò che a Berlino è successo durante e dopo la seconda guerra mondiale. A confermarlo è l'epilogo accompagnato da un sottofondo di bombardamenti aerei.
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La vicenda che si svolge nei pressi del muro di Berlino vede una coppia in crisi alle prese con i deliri di lei, Anna (Isabelle Adjani), che trascina a poco a poco suo marito Marc (Sam Neill) in un vortice di dolore, angoscia e soprattutto di efferati omicidi.
Le voci che fanno da sfondo sonoro nei momenti di maggiore agitazione di Anna sono, a mio avviso, quelle della sofferenza provata dalle famiglie divise dallo storico muro; la lotta tra il bene e il male che si svolge nella sua testa è stravinta dal male ed anche questo è un'allegoria di ciò che a Berlino è successo durante e dopo la seconda guerra mondiale. A confermarlo è l'epilogo accompagnato da un sottofondo di bombardamenti aerei.
Splatter, ma abbastanza spettacolari gli effetti speciali che animano la vicenda, vedi il sanguinante polipo gigante da cui Anna si fa possedere. Pezzi di cadavere in frigo, accoltellamenti vari e allucinazioni continue fanno da contorno per un film caratterizzato da scelte registiche spinte, fedeli concettualmente a quanto l'autore voleva trasportare: angoscia, sofferenza, patimento!
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[+] vero
(di nerazzurro)
[ - ] vero
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stefano giasone da-fré
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venerdì 21 dicembre 2012
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il muro deve cadere.
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Un blu velluto, quasi opaco, è colore primigenio in cui feconda si mostra libertà.
E di lei la gestazione è trama erta, in tensione continua tra l’incrinarsi dell’intersoggetivo lacerato ed il debordare palpitante di un plasma prossimo, cui pigmento reclama il più nobile tra i toni.
In blu rifrangono mura, vetri, tendaggi e moquette; di blu è intrisa la veste del prescelto, ed il prescelto-all’oltre è donna. Al mammifero consorte non rimangono che goffe le sue mosse arcane, virilità e deviazioni di scarno misticismo, paradigmatiche lusinghe a volontà e potenza, assiomi traballanti nell’annullamento d’ogni sè.
Possesion è l’impotenza del volere e del potere, ed in esse, dell’essere. E’ processo di affrancamento dall’illusiva presunzione di senso e appartenenza, ed insieme possibilità che spalanca porte all’ultra.
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Un blu velluto, quasi opaco, è colore primigenio in cui feconda si mostra libertà.
E di lei la gestazione è trama erta, in tensione continua tra l’incrinarsi dell’intersoggetivo lacerato ed il debordare palpitante di un plasma prossimo, cui pigmento reclama il più nobile tra i toni.
In blu rifrangono mura, vetri, tendaggi e moquette; di blu è intrisa la veste del prescelto, ed il prescelto-all’oltre è donna. Al mammifero consorte non rimangono che goffe le sue mosse arcane, virilità e deviazioni di scarno misticismo, paradigmatiche lusinghe a volontà e potenza, assiomi traballanti nell’annullamento d’ogni sè.
Possesion è l’impotenza del volere e del potere, ed in esse, dell’essere. E’ processo di affrancamento dall’illusiva presunzione di senso e appartenenza, ed insieme possibilità che spalanca porte all’ultra.
Palindromo è il conseguire in Anna, che si destruttura per scissione: Helen, alter ego immacolato, creatura osmotica da cui confluire abiogenesi, ed in cui colmare a forma esausta.
L’immagine è moto a tratti isterico e perpetuo di split-focus, altalena sorda ed autoriferita, piani intimi dove la possibilità comunicativa e comprensiva si slega dal cavo telefonico per aggrapparsi al filo diafano del sensibile, che informe si figura mostro e carne, tentacolo che penetra da dentro a dentro, a scardinare trappole e condizionamenti, purezza che all’inautentico trascende, e pone in solitaria repulsione la vacua relazione umana.
La chiave è nell’infinito accettare.
E non basta in parole l’atto. Necessita che allievo e maestro giungano a compimento estremo, in tracollo e unione; che il liberato segua il liberatore, perchè la liberazione è già da sempre alle sue spalle, in un gioco inafferrabile e divino di caduta e ascesi che a cognizione risulta perverso reiterare.
Fuorchè libero non sia condizione originaria, inconsapevolezza di fanciullo che eccede la materia ed infrange il divenire, catapultando inermi verso ignoto.
La cosa che ho perso là è mia sorella la fede.
Quel che mi rimane è il caso.
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gianleo67
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giovedì 9 maggio 2013
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il diavolo probabilmente...secondo Żulawski
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Grigio impiegato di un'agenzia di intelligence a Berlino Est torna a casa dopo una lunga e impegnativa missione, scoprendo che la moglie lo tradisce con un altro uomo. Quello che nessuno dei due sospetta però è che la donna, in preda ad una sempre più grave ed allarmante sindrome bipolare (disturbo della personalità e dell'umore), si rifugia in un anonimo e spoglio appartamento di periferia dove viene posseduta, nel corpo e nello spirito, da un'orrida creatura tentacolare. La scomparsa dei due detective privati che l'uomo aveva assoldato per pedinarla, lo portano alla scoperta di una realtà aberrante e disumana tra l'incarnazione di un'astratta entità metafisica e un diabolico progetto di annientamento del genere umano.
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Grigio impiegato di un'agenzia di intelligence a Berlino Est torna a casa dopo una lunga e impegnativa missione, scoprendo che la moglie lo tradisce con un altro uomo. Quello che nessuno dei due sospetta però è che la donna, in preda ad una sempre più grave ed allarmante sindrome bipolare (disturbo della personalità e dell'umore), si rifugia in un anonimo e spoglio appartamento di periferia dove viene posseduta, nel corpo e nello spirito, da un'orrida creatura tentacolare. La scomparsa dei due detective privati che l'uomo aveva assoldato per pedinarla, lo portano alla scoperta di una realtà aberrante e disumana tra l'incarnazione di un'astratta entità metafisica e un diabolico progetto di annientamento del genere umano.
Favola horror nella forma di un grottesco dramma metafisico di agenti segreti oltrecortina, amanti zen dallo stomaco debole, mogli fedifraghe sensibili alla sensuale fascinazione del male, ultracorpi dagli occhi verdi ed uno scoppiettante ed amaro finale apocalittico.
Opera difficilmente catalogabile nel panorama europeo del cinema d'autore (non aderisce al genere se non in una sua parossistica e personale rielaborazione dei meccanismi del giallo o della spy story) si mantiene sempre sul precario equilibrio di una delirante e irriverente rappresentazione dell'assurdo; le inquietudini visionarie di una sovraeccitazione creativa che oscilla tra il ridicolo ed il tragico di una realtà deformata dalla spiazzante mobilità della camera a mano, dalle prospettive stranianti, dal debordante surrealismo della messa in scena dove gli attori si muovono come marionette impazzite in balia dei capricci di un oscuro manovratore (il Regista? Dio? il Caso?). Marchio di fabbrica che conserva nel successivo 'Amour braque - Amore balordo',il regista polacco (gia' assistente di Wajda) incrina con metodico rigore il rapporto che esiste tra realtà e finzione per restituirci una irridente allegoria sul destino dell'uomo combattuto tra l'ostinazione di un gretto materialismo e la sofferta aspirazione ad una verità superiore ("E' come quelle due sorelle,Fede e Fortuna.Fede non puo'escludere Fortuna,ma Fortuna non può spiegare Fede.La mia fede mi ha privato della fortuna e la fortuna non mi ha dato la fede"), in preda al delirio distonico ed afasico di una dolorosa impotenza. La materia scottante cui si accosta Żulawski (il contatto dell' uomo col sacro o col metafisico, già soggetto del pasoliniano 'Teorema') è affrontata con il freddo distacco di una grottesca teatralità sempre esibita, irritante , sconcertante, quasi ludica ma che sovente perviene agli esiti di una cogente tensione drammatica tra la viscida incarnazione del male, le spiazzanti dinamiche del noir e la irridente allegoria di un pessimismo cupo e irrimediabile.
Superlativa la prova di una straordinaria Isabelle Adjani (vincitrice del premio per la migliore interpretazione femminile al 34° Festival di Cannes), triste 'Madonna' dagli occhi di ghiaccio e il corpo diafano, dilaniata dal male oscuro di un indicibile tormento interiore e la maschera fredda e sgomenta di un impotente Sam Neil perfetto prototipo delle debolezze e delle contraddizioni umane. Colpito dalla censura e dai tagli in tutti i paesi in cui è stato distribuito (tranne in Germania dove non è stato mai distribuito non ostante sia girato a Berlino e coprodotto dalla Gaumont con una casa di produzione tedesca) ne esitono diverse versioni: quella italiana ' di 80'. 'Quando la donna giacera col dimonio l'uomo si sostituirà all'uomo ed il male estenderà il suo dominio sul mondo'.Il diavolo probabilmente...avrebbe detto Bresson.
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ugogigio
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lunedì 24 febbraio 2014
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because you say "i" for me (2)
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(continua)la Libertà e l’Esistenza, facendo leva su un visionario isterismo stilistico condotto all’insegna dell’eccesso e dell’esasperazione del mezzo. La struttura del film, dispersiva, ridondante e proprio per questo affascinante e al contempo funzionale ai propri scopi, ha come cuore e centro teorico-programmatico lo straziante monologo in cui Anna, guardando in macchina, esplicita la dimensione filosofica del film, che in tutta la prima parte era rimasta in filigrana. Strabilianti le soluzioni registiche dalle angolature deformanti e inusuali, che producono effetti di grottesco straniamento e allucinazione, così come la massima cura della messa in scena e della fotografia, in cui predominano tinte fredde virate al grigio-blu.
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(continua)la Libertà e l’Esistenza, facendo leva su un visionario isterismo stilistico condotto all’insegna dell’eccesso e dell’esasperazione del mezzo. La struttura del film, dispersiva, ridondante e proprio per questo affascinante e al contempo funzionale ai propri scopi, ha come cuore e centro teorico-programmatico lo straziante monologo in cui Anna, guardando in macchina, esplicita la dimensione filosofica del film, che in tutta la prima parte era rimasta in filigrana. Strabilianti le soluzioni registiche dalle angolature deformanti e inusuali, che producono effetti di grottesco straniamento e allucinazione, così come la massima cura della messa in scena e della fotografia, in cui predominano tinte fredde virate al grigio-blu. In effetti il colore dominante dell’intero film è in assoluto il blu, esplorato in tutte le sue sfumature e associato in particolare all’eburneo candore dell’incarnato di Anna, Madonna del dolore che viene così a richiamare proprio l’iconografia della Vergine Maria, di cui in sostanza non rappresenta altro che un corrispettivo negativo: è per suo tramite infatti che il principio metafisico del Male, l’Anticristo, si fa carne, e in più momenti si accenna alla presenza di Dio in lei. Altro motivo centrale è poi quello del doppione, del doppelgänger, per cui nel finale Anna e Mark saranno sostituiti dai rispettivi doppi complementari, l’immacolata maestra di scuola dagli occhi di smeraldo e il malvagio gemello-figlio dal sorriso beffardo: elemento che va ad accrescere ulteriormente il fascino e la complessità di un’opera che offre svariati livelli d’interpretazione (metafisico, esistenziale, psicologico, storico-politico ecc...), apparendo quasi conclusiva, riassuntiva di tutto ciò di cui il cinema può e potrà mai parlare, e conservandosi però refrattaria a qualsiasi tentativo di sviscerarne in modo univoco e assolutamente soddisfacente tutta l’eterogenea congerie delle sue componenti. Possession è altresì un susseguirsi ininterrotto di scene dal devastante impatto visionario e dalla forza esasperata. I furiosi scontri tra Sam Neill e Isabelle Adjani sono qualcosa di magistrale sul piano di recitazione, scrittura e coreografia; la scena della metropolitana è di un delirio e di un’angoscia difficilmente eguagliabili; l’impotenza degli sguardi rivolti da Anna al crocifisso, da cui non riceve alcuna risposta, e la balbettante sconnessione del suo monologo stringono il cuore; la scena della lezione di danza riesce a suscitare un senso di insopportabile disagio e oppressione dove non dovrebbe esserci; straziante è anche la morte di Anna e Mark in cima alla scala a chiocciola, e il finale mette la pelle d’oca: il bambino preveggente e “luccicante” che corre a rifugiarsi nella vasca avvertendo di non aprire la porta, mentre le luci si sovraespongono facendo brillare gli occhi verdi dell’alter ego benefico di Anna, la sagoma dell’Anticristo che emerge dal vetro della porta alle sue spalle, i boati dell’imminente deflagrazione della Terza Guerra Mondiale che crescono in sottofondo. Vergognoso il trattamento riservato a un capolavoro simile nelle varie versioni tagliate, rimontate e riscritte per effetto di una miope e quanto mai ottusa censura, compresa quella italiana di 80 min, in cui lo svilimento e la banalizzazione dell’originale a semplice storia di possessione demoniaca fanno più pena che rabbia. 10
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ugogigio
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sabato 22 febbraio 2014
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because you say "i" for me
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Magmatico e straripante, labirintico, angoscioso, straniante, Possession di Andrzej Zulawski è una di quelle oscure perle della cinematografia ingiustamente misconosciute o dimenticate dai più, un vero gioiello dai riflessi costantemente cangianti che ambisce come ben pochi film a riassumere in sé tutti gli interrogativi più urgenti dell’umana esistenza. In una desolata Berlino est, dipinta da rapidi movimenti di macchina che assecondano le frenetiche traiettorie dei personaggi, si consumano l’angosciante discesa nella disperazione dell’essere e lo svuotamento emotivo e morale di una donna combattuta tra il dubbio e la fede, cui una bellissima ed immensa Isabelle Adjani dona una grazia e una fragilità dolenti uniche.
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Magmatico e straripante, labirintico, angoscioso, straniante, Possession di Andrzej Zulawski è una di quelle oscure perle della cinematografia ingiustamente misconosciute o dimenticate dai più, un vero gioiello dai riflessi costantemente cangianti che ambisce come ben pochi film a riassumere in sé tutti gli interrogativi più urgenti dell’umana esistenza. In una desolata Berlino est, dipinta da rapidi movimenti di macchina che assecondano le frenetiche traiettorie dei personaggi, si consumano l’angosciante discesa nella disperazione dell’essere e lo svuotamento emotivo e morale di una donna combattuta tra il dubbio e la fede, cui una bellissima ed immensa Isabelle Adjani dona una grazia e una fragilità dolenti uniche. Oppressa, attanagliata, dilacerata da un oscuro male dell’animo, la cinepresa la viviseziona spietatamente, ne scruta e registra il soffocante dolore con primissimi piani che tolgono il fiato. È la lotta tra due istanze inconciliabili, eppure entrambe necessarie, che come due sorelle Anna vede convivere in sé e nel mondo, a dibattersi in lei dilaniandole l’anima: da un lato la Fede, il vagheggiamento di un ordine razionale superiore, dall’altro la Sorte, il riconoscimento disincantato dell’arida insensatezza dell’universo. Esasperata da questo scontro irrisolvibile tra Fede e Sorte, eppure alla ricerca di una terza, impraticabile via che permetta infine di penetrare acutamente la realtà, di radicarvisi senza per questo doverla deformare o surrogare, Anna finisce col rimanere prosciugata di ogni senso vitale, perdendo ogni misura etica e principio razionale. E finisce anche col perdere la Fede, letteralmente con uno sconvolgente aborto spontaneo, perdendo così anche la possibilità di trovare un senso in un universo dominato dal Caso. In tutto il film regnano infatti il caos, la crisi delle meschinità che danno certezza aiutando ad imbrigliare in un’impalcatura precaria l’informe materia dell’essere, la nevrosi e l’isteria, gli spasmi incontrollati e la catatonia, l’emergere del disgusto e della ripugnanza di sé, il vagare vorticoso senza una meta in un mondo il cui unico cardine certo si rivela essere il predominio incontrastato del Male. Il Bene non è che mero riflettere sul Male, nell’inane tentativo di comprenderlo e porvi rimedio, quando è invece il Male stesso a divenire dipendenza, bisogno impellente, necessità senza la quale è impossibile esistere. E proprio dall’aborto della Fede e dall’avanzare del dubbio in lei si genererà l’incarnazione del principio metafisico stesso del Male cosmico, simboleggiato dal repellente viscidume della creatura dell’appartamento. Con questa Anna intraprenderà una morbosa relazione simbiotica trovando appagamento al suo bisogno carnale e spirituale e allo stesso tempo prendendosene cura come di un figlio a tutti gli effetti: il Male, unico appiglio cui aggrapparsi nel caos del mondo, diventerà così la sua Fede. Giunta al termine di un aberrante processo di progressiva maturazione, tale creatura si rivelerà essere infine un doppione di Mark, marito di Anna e personaggio focale del film, e in chiusura vi si alluderà addirittura come ad una sorta di Anticristo, premonendo l’ombra di un’apocalisse atomica universale. Sotto l’aspetto di un film proteiforme e solo faticosamente classificabile come drammatico/orrorifico (ma con ampie contaminazioni nonsense e persino un certo umorismo grottesco e surreale) si sviluppa dunque una profonda e complessa riflessione su Dio, il Male,(continua)
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jacopob98
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martedì 15 agosto 2017
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un tour de force visivo senza precedenti
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Nella Berlino divisa dal Muro una coppia (Isabelle Adjani e Sam Neill) va in crisi per il presunto tradimento di lei. Lui allora le appieda un detective privato e scoprirà che la donna ha due amanti: il bizzarro Heinrick (H. Bennent) e una creatura tentacolare che lei stessa ha generato. Censurato, ritagliato e rimontato: per anni il mondo ha tentato di annientare il più importante film del polacco Żuławski, Possession, una sconvolgente riflessione sulla frantumazione della coppia, che in Italia circolò in un’incomprensibile versione di 80’.
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Nella Berlino divisa dal Muro una coppia (Isabelle Adjani e Sam Neill) va in crisi per il presunto tradimento di lei. Lui allora le appieda un detective privato e scoprirà che la donna ha due amanti: il bizzarro Heinrick (H. Bennent) e una creatura tentacolare che lei stessa ha generato. Censurato, ritagliato e rimontato: per anni il mondo ha tentato di annientare il più importante film del polacco Żuławski, Possession, una sconvolgente riflessione sulla frantumazione della coppia, che in Italia circolò in un’incomprensibile versione di 80’. Un autentico film maledetto dunque, che fu oggetto di persecuzione per la ferocia indicibile con cui il regista portò avanti la propria complessa visione in questo incubo metropolitano. È un cinema difficilissimo, diciamolo subito, per pochi. Guardare Possession non è tanto una visione quanto più un’esperienza, significa infatti accettare di farsi perforare l’occhio e trapanare il cervello da un regista in stato di grazia, che con una messa in scena vorticosa e un uso rivoluzionario della telecamera, “guarda dritto dentro l’anima delle persone”, come affermò la Adjani, e ci scaraventa all’interno dell’apocalisse di una separazione che procede di pari passo alla scissione dell’anima dei protagonisti, il tutto in una città franta dal Muro. È dunque il film che forse più di ogni altro cerca di far luce sull’idea della divisione e, per farlo, si immerge senza paura nelle torbide acque della psiche umana. La prima parte è più dialogata e prelude alla seconda, che si regge soprattutto sulla forza delle splendide immagini di Bruno Nuytten, capaci di giocare con gli elementi scenografici, specie gli specchi, e di creare così una tra più complesse riflessioni mai effettuate sul tema del doppio. Il finale è da brividi e il colpo di scena che lo precede porta lo spettatore a porsi interessanti interrogativi sulla morale e sul significato di un tradimento all’interno di una coppia. E l’ultima inquadratura, con il dopplegänger del protagonista Mark che si attacca alla porta a vetri (dettaglio abbastanza essenziale) di casa, nel tentativo di ricongiungersi con la candida maestrina Helen, è tremendamente disturbante ed ambigua: Żuławski va fino in fondo e chiude il film in maniera ben poco rassicurante. Indimenticabili le prove attoriali di Sam Neill e soprattutto di Isabelle Adjani (che vinse meritatamente Cannes), la quale dà vita ad una tra le più viscerali interpretazioni che si siano mai viste sullo schermo, un autentico tour de force, che si riflette anche sull’esperienza dello spettatore. La sequenza del delirio in metropolitana, in particolare, lancia l’attrice nell’Olimpo delle più grandi di sempre.
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[+] recensione scritta molto bene
(di taxidriver)
[ - ] recensione scritta molto bene
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ugogigio
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lunedì 24 febbraio 2014
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because you say "i" for me (2)
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(continua)la Libertà e l’Esistenza, facendo leva su un visionario isterismo stilistico condotto all’insegna dell’eccesso e dell’esasperazione del mezzo. La struttura del film, dispersiva, ridondante e proprio per questo affascinante e al contempo funzionale ai propri scopi, ha come cuore e centro teorico-programmatico lo straziante monologo in cui Anna, guardando in macchina, esplicita la dimensione filosofica del film, che in tutta la prima parte era rimasta in filigrana. Strabilianti le soluzioni registiche dalle angolature deformanti e inusuali, che producono effetti di grottesco straniamento e allucinazione, così come la massima cura della messa in scena e della fotografia, in cui predominano tinte fredde virate al grigio-blu.
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(continua)la Libertà e l’Esistenza, facendo leva su un visionario isterismo stilistico condotto all’insegna dell’eccesso e dell’esasperazione del mezzo. La struttura del film, dispersiva, ridondante e proprio per questo affascinante e al contempo funzionale ai propri scopi, ha come cuore e centro teorico-programmatico lo straziante monologo in cui Anna, guardando in macchina, esplicita la dimensione filosofica del film, che in tutta la prima parte era rimasta in filigrana. Strabilianti le soluzioni registiche dalle angolature deformanti e inusuali, che producono effetti di grottesco straniamento e allucinazione, così come la massima cura della messa in scena e della fotografia, in cui predominano tinte fredde virate al grigio-blu. In effetti il colore dominante dell’intero film è in assoluto il blu, esplorato in tutte le sue sfumature e associato in particolare all’eburneo candore dell’incarnato di Anna, Madonna del dolore che viene così a richiamare proprio l’iconografia della Vergine Maria, di cui in sostanza non rappresenta altro che un corrispettivo negativo: è per suo tramite infatti che il principio metafisico del Male, l’Anticristo, si fa carne, e in più momenti si accenna alla presenza di Dio in lei. Altro motivo centrale è poi quello del doppione, del doppelgänger, per cui nel finale Anna e Mark saranno sostituiti dai rispettivi doppi complementari, l’immacolata maestra di scuola dagli occhi di smeraldo e il malvagio gemello-figlio dal sorriso beffardo: elemento che va ad accrescere ulteriormente il fascino e la complessità di un’opera che offre svariati livelli d’interpretazione (metafisico, esistenziale, psicologico, storico-politico ecc...), apparendo quasi conclusiva, riassuntiva di tutto ciò di cui il cinema può e potrà mai parlare, e conservandosi però refrattaria a qualsiasi tentativo di sviscerarne in modo univoco e assolutamente soddisfacente tutta l’eterogenea congerie delle sue componenti. Possession è altresì un susseguirsi ininterrotto di scene dal devastante impatto visionario e dalla forza esasperata. I furiosi scontri tra Sam Neill e Isabelle Adjani sono qualcosa di magistrale sul piano di recitazione, scrittura e coreografia; la scena della metropolitana è di un delirio e di un’angoscia difficilmente eguagliabili; l’impotenza degli sguardi rivolti da Anna al crocifisso, da cui non riceve alcuna risposta, e la balbettante sconnessione del suo monologo stringono il cuore; la scena della lezione di danza riesce a suscitare un senso di insopportabile disagio e oppressione dove non dovrebbe esserci; straziante è anche la morte di Anna e Mark in cima alla scala a chiocciola, e il finale mette la pelle d’oca: il bambino preveggente e “luccicante” che corre a rifugiarsi nella vasca avvertendo di non aprire la porta, mentre le luci si sovraespongono facendo brillare gli occhi verdi dell’alter ego benefico di Anna, la sagoma dell’Anticristo che emerge dal vetro della porta alle sue spalle, i boati dell’imminente deflagrazione della Terza Guerra Mondiale che crescono in sottofondo. Vergognoso il trattamento riservato a un capolavoro simile nelle varie versioni tagliate, rimontate e riscritte per effetto di una miope e quanto mai ottusa censura, compresa quella italiana di 80 min, in cui lo svilimento e la banalizzazione dell’originale a semplice storia di possessione demoniaca fanno più pena che rabbia. 10
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taxidriver
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giovedì 16 novembre 2017
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un film che non va da nessuna parte
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Il resoconto di un incubo psicanalitico, probabilmente proiezione delle stesse paure e paranoie del regista, che sceglie un approccio schizofrenico: da una parte vorrebbe ambire a un'analisi psichica (ovviamente in chiave freudiana), intellettualizzando quindi la narrazione; dall'altra imbocca la via dell'orrore puro (con sovratoni soprannaturali) attraverso scene raccapriccianti e soprattutto la presenza di un mostro reale (in carne e ossa) come nella miglior tradizione horror-fantascientifica. Questa ambiguità nuoce gravemente all'opera che, non scegliendo una direzione precisa, finisce per essere inconcludente e insignificante. Ciò non impedisce a Possession di essere una delle pellicole più disturbanti della storia del cinema, grazie a tre elementi: le atmosfere malate e opprimenti; il rapporto carnale con un essere repellente; un'eccezionale interpretazione di Isabelle Adjani.
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Il resoconto di un incubo psicanalitico, probabilmente proiezione delle stesse paure e paranoie del regista, che sceglie un approccio schizofrenico: da una parte vorrebbe ambire a un'analisi psichica (ovviamente in chiave freudiana), intellettualizzando quindi la narrazione; dall'altra imbocca la via dell'orrore puro (con sovratoni soprannaturali) attraverso scene raccapriccianti e soprattutto la presenza di un mostro reale (in carne e ossa) come nella miglior tradizione horror-fantascientifica. Questa ambiguità nuoce gravemente all'opera che, non scegliendo una direzione precisa, finisce per essere inconcludente e insignificante. Ciò non impedisce a Possession di essere una delle pellicole più disturbanti della storia del cinema, grazie a tre elementi: le atmosfere malate e opprimenti; il rapporto carnale con un essere repellente; un'eccezionale interpretazione di Isabelle Adjani. David Lynch, da par suo, lo ha definito "la pellicola più completa degli ultimi trent'anni"; affermazione che non condivido, pur ritenendo Lynch uno dei grandi maestri del cinema e uno dei miei registi preferiti. A me invece Possession sembra un tentativo, originale ma malriuscito, di fondere due diverse scuole di cinema (quello "intellettuale" e quello "popolare"), che fallisce proprio perché non va da nessuna parte. Ma probabilmente era proprio questa l'intenzione dello stesso Zulawski, che si affida alle atmosfere, al sesso con il mostro e alla Adjani per provocare uno shock nello spettatore. Possession comunque resta un'opera singolare nella storia del cinema che vale la pena guardare.
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