Il deserto rosso |
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Un film di Michelangelo Antonioni.
Con Monica Vitti, Richard Harris, Xenia Valderi, Rita Renoir.
continua»
Drammatico,
Ratings: Kids+16,
durata 120 min.
- Italia 1964.
MYMONETRO
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Deserto Rosso, M. Antonioni
di Vale86Feedback: 0 |
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lunedì 28 maggio 2007 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Un regista del calibro di Antonioni, con un’attrice dal talento indiscusso come Monica Vitti, si cimenta, sull’onda del successo arrivato con la trilogia che si chiude nel '62 con L’Eclisse, nella creazione del suo primo film a colori, che si rivela essere, nonostante le osannazioni da ogni parte, un film pretenzioso, non ispirato, ingiustificatamente lento e pesante. Vuole essere un film psicologico, su una nevrosi - depressione, di cui conosciamo l’esistenza solo per sentito dire (da qualcuno nel film); e insieme un film-condanna della società contemporanea, industrializzata, che porta disagio e rende l’uomo alieno anche a se stesso. In effetti i personaggi sono piazzati lì, in un ambiente freddo cupo, tra le fabbriche della zona industriale, e le distese desolate e nebbiose della pianura padana; in effetti sembra che non ci stiano a fare niente. Ma, allo sguardo innocente dello spettatore, non sembra che l’effetto dello spaesamento degli attori sia propriamente voluto. Di dissociazione uomo-ambiente ne parlano i critici che, se di solito si spingono ad andare oltre e a cercare la metafora di un senso più ampio, qui spiccano proprio il volo e nelle loro interpretazioni mistificanti non rimane traccia del film. La trama è scarna, addirittura inconsistente. La storia non riesce a svilupparsi, impantanata in quelle paludi fredde, in quel silenzio infinito, in quella difficoltà di espressione di corpi estraniati, che camminano, accennano una corsa, si voltano, dicono qualche parola, ma non esistono. Non esistono come personaggi, sono ornamento sterile di un paesaggio sterile. È pesante all’inverosimile. Durante la visione si soffre. Il neofita, nel non apprezzare il film, potrebbe con umiltà per un attimo pensare di non averlo capito, ma accantona subito questa ipotesi. I dialoghi, quando qualcuno si decide ad aprire la bocca, sono infatti semplici e superficiali. Se il film è praticamente muto, quando si accenna al dialogo uno drizza le orecchie (se la quantità va a discapito della qualità, si presume vero l’inverso), si aspetta qualcosa di interessante, perle di saggezza, o al peggio cose incomprensibili, elusive, ma che almeno diano la sensazione di essere cose pensate per bene. Altrimenti, a questo punto meglio il silenzio. E invece i discorsi sono sin troppo semplici da capire, e l’arte non potrebbe venir certo da qui. Allora, magari, se le parole non parlano, e nemmeno il silenzio dei paesaggi parla, parlerà lo sguardo dei personaggi, magari sono tristi e malinconici, e magari Giuliana è depressa (dato che la sua depressione doveva essere il tema base del film); e invece no, gli attori sono pochissimo espressivi, freddi. La stessa Monica Vitti, incomprensibilmente, non convince, e in certe scene si lascia andare a una recitazione che sa di teatrale (e che non può credibilmente essere stata voluta dal regista). Non ci crediamo insomma. Alla depressione, al disagio della borghesia, alla storia d’amore di Giuliana col collega del marito. Che sia stata una provocazione? Antonioni docet infatti, molto probabilmente senza volerlo, che quando ci si conquista la stima degli intellettuali, dei critici, e anche un posto nel mondo dei geni, si può fare anche un film senza niente: niente storia, niente dialogo, niente espressione, niente senso, tanto ci penseranno gli altri a condirlo e a svelare improbabili significati. Rimangono i riusciti esperimenti cromatici e i giochi di luce con i quali il regista si diletta per la prima volta, e poi, la suggestione delle immagini, e della fotografia, insuperabile, il cui merito però va in gran parte al poco conosciuto, ma bravissimo direttore della fotografia Carlo di Palma, morto 3 anni fa, nel 2004, che ha collaborato con Antonioni anche nell’indiscutibile capolavoro “Blow up”. La sensazione è che Antonioni non sapesse come utilizzare tutto questo materiale fotografico, che non sapesse sviluppare l'intuizione interessante di portate sul grande schermo i mali della società industriale.
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