Le parole di mio padre |
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Un film di Francesca Comencini.
Con Chiara Mastroianni, Toni Bertorelli, Fabrizio Rongione, Mimmo Calopresti, Claudia Coli.
continua»
Drammatico,
durata 90 min.
- Italia, Francia 2001.
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Zeno Cosini: letterari tormentidi KantFeedback: 0 |
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mercoledì 13 giugno 2001 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Francesca Comencini, a sedici anni dall’esordio (“Pianoforte”), sceglie il confronto con la grande tradizione letteraria del ‘900. Ma “La coscienza di Zeno” è soltanto un pretesto narrativo. Il film non è affatto “sveviano”, non soltanto per la trasposizione della vicenda dalla Trieste di Ettore Schmitz alla Roma dei giorni nostri. Le atmosfere ossessivamente plumbee, la silenziosa drammaticità delle solitudini raccontate, il tono teatrale di alcune scene madri e l’assenza vistosa di qualsiasi sfumatura ironica, fanno de “Le parole di mio padre” (visto a Cannes nella sezione “Un Certain Regard”) una pellicola d’autore autonoma, affascinante e difficile. Il film ha un’andatura monologante, chiusa in un clima di tristezza profonda, tragicamente incomunicabile. Al centro il tema dell’io diviso, smarrito, in cerca di un ruolo. Quella di Zeno Cosini è un’identità in cerca di appigli, sballottata e sofferente nel vuoto di un’esistenza qualunque, di un grigio fastidiosamente anonimo. Il tono crepuscolare trova nella regia un valido alleato: movimenti di macchina fluidi ed avvolgenti si alternano a riprese a mano da free cinema, nel tentativo (riuscito) di restituire stilisticamente il travaglio dell’anima in frantumi dell’inetto Cosini. Ottimo, con qualche “lieve” riserva, il cast. Mimmo Calopresti, nei panni borghesi di Giovanni Malfenti, è efficacemente misurato. Un campione italiano di understatement. Sorprendente la prova di Chiara Mastroianni (Ada), segnata da una traboccante e tormentata impronta teatrale (giustificata dal plot che a tratti gioca a confondere vita reale e palcoscenico). Soltanto accettabile il piglio nichilistico, di gusto smaccatamente letterario, di Fabrizio Rongione (Zeno Cosini). L’attore sbilancia l’interpretazione, caricandola (in eccesso) di un’irrequietudine calligrafica.
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